La critica transferale
Baudelaire/Poe, Bataille/Sade
di Carlo Pasi
Se è vero che non esiste rapporto con se stessi se non riflesso[1], ed è l’immagine dell’altro che ci permette di scavare nelle pieghe dell’Io, il discorso critico, in quanto apertura sull’alterità, costituisce un passaggio costruttivo nell’autoconoscenza.
Come la traduzione o l’interpretazione dell’attore, a cui si avvicina, l’approccio critico, sotteso dalla dialettica non io – non non io[2] per l’emersione di quell’altro in sé che è il proprio volto sconosciuto, innesca una ricerca speculare, obliqua, indiretta dei propri aspetti ignorati che l’interrogazione sull’oggetto aiuta a portare alla luce. In tal senso, e attraverso di esso, si è irrimediabilmente coinvolti e il soggetto investigante risulta alterato dall’oggetto della sua investigazione.
Confrontandosi con l’altro in un rapporto interattivo in cui è la propria integrità a venire intaccata, si rischia lo sprofondamento in una zona d’incertezza dove si perdono i confini dell’Io. Ma è sempre l’altro a tenere le fila, sollecitando gli echi, forzando le domande per intrecciare i percorsi verso quell’area provvisoria del riconoscimento e dello scambio da cui si esce rigenerati.
Nell’alternarsi di prossimità e distanza lo sguardo si fa ascolto e non pretende di ingabbiare l’altro in schemi preordinati ma allestisce invece un nuovo spazio “transferale” in cui il ruolo mediatore è affidato questa volta alla scrittura. È la scrittura che permette di sondare le zone sconosciute dell’essere sottraendosi a un cammino già tracciato. L’atteggiamento dell’ascolto con tutte le implicazioni associative che comporta, rappresenta il tramite più fecondo nell’affioramento di un terzo spazio-evento scaturito dalla confluenza di due esperienze diverse. E sono aspetti consonanti, vibrazioni analogiche, echi empatici a venir sollecitati nella produzione di un nuovo organismo espressivo che è prolungamento e scoperta.
Si profila così una figura di poeta-critico la cui attività d’interrogazione speculare sull’opera altrui finisce per coincidere con l’orchestrazione dei propri processi creativi.
Se, come suggerisce Roland Barthes, lo scrittore è un uomo per cui il linguaggio fa problema, il poeta-critico appunterà la sua attenzione sugli inceppamenti e gli ingorghi della materia verbale, nodi sintattici, ritmi discordanti, distonie, sezionando il corpo stesso della scrittura in un processo di «curazione crudele» nel senso artaudiano[3], proteso cioè alla disarticolazione e riarticolazione di una nuova anatomia espressiva. È allora che si penetra più a fondo al di là del conosciuto in un rapporto di modificazione reciproca in cui sono in gioco non soltanto due esperienze creative ma forse ancora due destini corporei.
Il desiderio costituisce l’elemento propulsore di quel che si potrebbe definire un processo di ri-creazione perché avviato dalla presenza dell’altro che richiede un nuovo sguardo a partire dalla riattivazione empatica dei propri meccanismi espressivi.
Situerei nell’attività critica di Baudelaire[4] la prima realizzazione di una scrittura del desiderio in cui l’incontro con un interlocutore d’elezione costituisce la spinta generatrice dell’intero percorso poetico. Mossa infatti dal desiderio, la doppia operazione critico-poetica confluisce in un’unica dinamica costruttiva in cui è impossibile scindere l’apporto efficace di entrambe. Critica e poesia s’intrecciano nella stessa area problematica in cui alla pulsione del desiderio rischia di rispondere la minaccia del silenzio. Infatti la passione[5] di cui parla Baudelaire come stimolo conoscitivo che alimenta l’incontro con l’opera altrui, è da intendersi anche nel suo valore etimologico di affezione sofferta, attraversamento di forze laceranti, patimento. S’ iscrive in quel conflitto, subìto più che voluto, fra l’urgenza di dire e l’improvviso blocco del tacere. In definitiva appare sottesa da una forma di crudeltà – se per crudeltà intendiamo in un’accezione originaria quell’impedimento iniziale di una parola ingolfata e oppressa nelle strette dell’afasia.
Si va allora elaborando, fra spinte e contro-spinte, il parto doloroso di una nuova scrittura che nel confronto con l’alterità produce l’emersione di quella lingua straniera nella propria che, secondo Marcel Proust, compone il tessuto verbale dei grandi libri[6].
Credo che il sonetto Le Guignon nella prima sezione delle Fleurs du mal, sia per molti versi il modello esemplare di quella dimensione critico-poetica colta nella sua essenza di comunicazione crudele che s’intreccia nel difficile incontro fra l’io e l’altro.
Nel Salon del 1846, Baudelaire aveva sostenuto l’esigenza di un nuovo rapporto critico che comportasse una totale adesione all’opera altrui attraverso l’elaborazione di una forma poetica, «sonetto o elegia», scaturita da un’esperienza «parziale, appassionata, politica, cioè fatta da un punto di vista esclusivo, ma in grado di aprire molteplici orizzonti».
Le Guignon[7] appare in un certo senso l’esemplificazione più efficace di tale assunto programmatico, non tanto però come nel caso dei Phares nell’ottica della trasposizione visionaria delle arti – passaggio dall’immagine alla parola – quanto piuttosto per vie oblique, come il tentativo più ambizioso di toccare e riattivare i punti nevralgici, la rete neuronica della comunicazione poetica.
Il sonetto è una rielaborazione-traduzione – e in tal senso si pone anche sul versante critico – di due frammenti poetici di H. W. Longfellow e Th. Gray[8]. Dietro di essi si può cogliere in filigrana l’evocazione di un altro poeta di lingua inglese, quell’Edgar Allan Poe qui sottaciuto ma presente, che assurge infatti ad interlocutore e mediatore privilegiato dell’intera attività poetico-speculativa di Baudelaire. Il collegamento con la lingua inglese è in realtà su Edgar Poe che si sperimenta, attraverso un’opera di traduzione come critica e critica come traduzione che serve a fecondare di nuovi accenti stranieri la propria lingua poetica.
Il «guignon» rinvia a quell’immagine del poeta misconosciuto che apre il famoso saggio su Edgar Allan Poe, sa vie et ses ouvrages (1852) in cui Baudelaire, in una sorta di proiezione speculare, en abîme, sembra tracciare anche il suo destino di poeta. E l’Artiste inconnu era il primo titolo previso del Guignon.
Si cominciano a intravvedere le complesse ramificazioni che si intrecciano intorno a questo celebre sonetto apparentemente costruito su una serie di citazioni, scaturite dalle sottili connessioni operate dal poeta traduttore e critico.
Confrontandosi con poeti di un’altra area linguistica (Poe coperto da H.W. Longfellow e da Th. Gray) che gli consentono di mediare il rapporto con la lingua materna, in una situazione più protetta, sfalsata, Baudelaire approfondisce e esorcizza al contempo il suo «guignon», la sua disdetta, quel contro-desiderio mortifero con cui è costretta a scontrarsi la sua necessità di dire. In un processo di sdoppiamento può proiettare sull’altro che gli fa da schermo, dissipando così i rischi dell’impotenza, il suo destino di poeta condannato a una comunicazione perturbata:
Il existe des destinées fatales : il existe dans la littérature de chaque pays des hommes qui portent le mot guignon écrit en caractères mystérieux dans les plis sinueux de leurs fronts. Il y a quelques temps on amenait devant les tribunaux un malheureux qui avait sur le front un tatouage singulier : pas de chance. Il portait ainsi partout avec lui l’étiquette de sa vie, comme un livre son titre, et l’interrogatoire prouva que son existence s’était conformée à cet écriteau. Dans l’histoire littéraire il y a des fortunes analogues. On dirait que l’ange aveugle de l’expiation s’est emparé de certains hommes, et les fouette à tour de bras pour l’édification des autres. (Edgar Allan Poe, sa vie et ses ouvrages)
(Esistono destini fatali: esistono nella letteratura di ogni paese uomini che portano la parola disdetta scritta in caratteri misteriosi nelle pieghe sinuose delle loro fronti. Tempo fa avevano portato in tribunale un infelice che aveva sulla fronte un tatuaggio singolare: nessuna fortuna. Recava così dapertutto il marchio della sua vita, come un libro il suo titolo, e l’interrogatorio provò che la sua esistenza si era conformata a tale scritto.Nella storia letteraria ci sono sorti analoghe. Si direbbe che l’angelo cieco dell’espiazione si sia impadronito di certi uomini e li fustighi con violenza per l’edificazione degli altri.”)
Attraverso la mediazione di altri poeti in una lingua che non è la propria, Baudelaire può sviscerare e sciogliere il nodo intricato della crudeltà fatalmente iscritta nella sua comunicazione poetica.
Pour soulever un poids si lourd,
Sisyphe, il faudrait ton courage!
Bien qu’on ait du cœur à l’ouvrage,
L’Art est long et le Temps est court
Loin des sépultures célèbres,
Vers un cimetière isolé,
Mon cœur, comme un tambour voilé,
Va battant des marches funèbres.
(Per sollevare un peso così greve,/Sisifo, occorrerebbe il tuo coraggio!/ Benché si abbia ardire per l’opera,/ l’Arte è lunga e il Tempo è breve.)
(Lontano dalle sepolture celebri,/ Verso un cimitero isolato,/ il mio cuore, come un tamburo velato,/ Va battendo marce funebri.)
La lotta contro il tempo (il celebre aforisma di Ippocrate, tradotto da Longfellow, «L’arte est long et le Temps est court»), è in realtà un duello con se stessi, coi grovigli espressivi annodati dalla pulsione di morte. E il tamburo che batte le marce funebri ritma la propria condanna all’inespresso, al non riconoscimento da parte dell’altro. Il blocco creativo si dispone a due livelli: uno è più interno, e, in esso, il sogno di bellezza colto allo stato nascente è preservato nel suo guscio illusorio, inaccessibile allo sguardo per rifulgere così nel suo splendore intatto. L’altro risulterà più esterno, essendo compiuto ormai il passaggio all’espressione, con un effetto di perdita, entropia.
Maint joyau dort enseveli
Dans les ténèbres et l’oubli,
Bien loin des pioches et des sondes ;
(Più di un gioiello dorme seppellito /Nelle tenebre e l’ oblio,/ Lontano dalle zappe e dalle sonde)
E’ la fase embrionale della creazione: l’oggetto è affondato nella dimensione uterina, notturna dell’indifferenziato che si rovescia nell’evocazione illusoria, compensatrice, della compattezza cristallina del gioiello. Laggiù, nelle profondità insondate, viene custodito perché sia sottratto al rischio di erosioni nell’emersione alla cruda luce del giorno.
Ma questo è solo un sogno, un fantasma di bellezza solidificato in una materia inattaccabile (rêve de pierre) il cui segreto, una volta partorito con rimpianto, si dissiperà fragilizzandosi nell’immagine del fiore. Il suo profumo, svanendo, non si espanderà per l’altro.
Mainte fleur épanche à regret
Son parfum doux comme un secret
Dans les solitudes profondes.
(Più di un fiore spande con rimpianto/ il suo profumo dolce come un segreto nelle solitudini profonde.)
Siamo nella seconda fase creativa, in cui a poco a poco si disfa il sogno della perfezione per tramutarsi nell’oggetto effimero di una bellezza che non può resistere all’usura. Poiché il segreto – la sua dinamica inconscia, pulsionale, la spinta del desiderio – è l’essenza della poesia, esso rischia di svaporare, una volta esposto. La comunicazione è già incrinata da una perdita, è crudele. Proprio per questo è contrastata (à regret) e reca in sé, fin dall’inizio, il germe della disfatta, della morte.
Esito di un parto travagliato, il fiore appare alla fine condannato al non riconoscimento. Gli effetti della sua bellezza sono sterili. Persi nella solitudine non entrano nel circuito dello scambio. Apparentemente quel dialogo nato fra le ombre, i doppi – fantasmi di poeti, linguaggi estranei, parole senza echi –, permane fra le ombre, non riesce a scalfire la sua crosta notturna, la scena senza corpi da cui è sorta. Ma in realtà, dalla condanna, dal guignon, filtra un messaggio divergente che pone in una nuova luce il problema della creazione poetica.
Perché ci sia autentica poesia, sembra dirci ancora Baudelaire, occorre inoltrarsi lungo un percorso scosceso – la marcia funebre – scandito dal conflitto, dalle percussioni dell’aggressione del silenzio (comme un tambour voilé). Solo allora si scaverà sempre più a fondo nelle zone sepolte, al di là del conosciuto, verso i grumi insondati dell’essere. Se il gioiello, una volta dissotterrato, si muterà nel fiore segnato in un certo senso dalla morte, avrà catturato, nel passaggio alla caducità[9], la forza attrattiva della vita effimera, l’intensità dell’istante, scegliendo la sua rarità. Per questo non è dato a tutti percepirlo, la sua esposizione resta misteriosa. Bisognerà conquistarlo con inquietudine e tremore come ha fatto il poeta nel suo sforzo generativo. «Ti nascondi per essere cercato», sembra allora aleggiare questa frase portata dal «profumo dolce come un segreto».
La grande opera è scostante, ha un accesso contratto, accidentato. Sottraendosi all’inizio all’imposizione dello scambio, non può essere riconosciuta. Si ritrae. Lontano dalla ribalta troppo accesa, lontano dalla gloria, marginale, «nei cimiteri isolati» elegge la sua dimora notturna. Ma la forza comunicativa non si perde. L’opera si è fatta ancora più esigente, ambigua, tortuosa, di un contatto difficile, spinoso. Non si offre, vuole essere cercata. Ma una volta trovata, in un cammino tormentato che sembra percorrere a rovescio la sua genesi, il suo impatto lascia il segno. Sarà come una ferita, sarà modificante.
Si inaugura con Baudelaire, nella comunicazione letteraria, quella che giustamente Walter Benjamin ha definito l’esperienza dello «choc»[10].
All’altro estremo, sul filo teso del desiderio, si situa l’opera di Georges Bataille. Anche per lui, in forme più affilate e eccessive, la comunicazione è crudele. Sovvertimento e intacco dell’integrità dell’essere, essa si pone in un confronto dialettico, rischioso con l’alterità. In quanto apertura, squarcio dilacerante, perdita, è di stampo sadiano. Il rapporto con Sade ha consentito a Bataille, la sua conoscenza «eterologica»[11], ma gli ha permesso anche di fondare la sua «scrittura-sacrificio» alla cui origine si staglia la figura del suppliziato cinese.
I cinque clichés che fissano questo atroce evento furono offerti a Bataille dal suo psicoanalista André Borel, proprio all’inizio della sua attività creativa e si ripropongono alla fine, nelle pagine conclusive della sua ultima opera Les Larmes d’Eros (1961).
Fra questi due estremi si tende l’esperienza decisiva di una forma di comunicazione estatica, intesa come uscita da sé, perdita dell’io e sconfinamento nell’oggetto. Comunicazione innescata dall’immagine di smembramento, di chiara matrice sadiana, offerta dal suppliziato. Senza la connivenza, al limite dell’identificazione, con il mondo di Sade, non si sarebbe riattivata forse in Bataille quell’attrazione segreta verso gli eccessi convulsi dell’Eros e della morte. La concezione di un erotismo come «approbation de la vie jusque dans la mort» (“approvazione della vita fino nella morte”)[12], si ricollega infatti al pensiero di Sade di cui viene citata proprio all’inizio de L’Erotisme questa frase significativa: «Il n’est pas de meilleur moyen pour se familiariser avec la mort que de l’allier à une idée libertine» (Non c’è miglior mezzo per familiarizzarsi con la morte che di legarla ad una idea libertina”)[13].
Sotto il segno di Sade si sviluppa quindi la visione «sacrificale» della comunicazione erotica[14]: la presenza della morte costituisce l’elemento propulsore nell’alterazione dei corpi sospinti dalla chiusura della discontinuità fino all’immersione in una continuità effusiva. Il «dérèglement» è quel che rovina l’ordine stabilito, forza le difese di una situazione protetta e come aggrovigliata nelle strette dell’io – la condizione dell’anxieux – aprendola al contatto di identità lacerata che nella lacerazione trovano il loro sbocco comuniale.
La violenza di Sade è collegata al silenzio imposto della vittima: «Sade parle, mais il parle au nom de la vie silencieuse, au nom d’une solitude parfaite, inévitablement muette» (“Sade parla, ma parla in nome della vita silenziosa, in nome della solitudine perfetta, inevitabilmente muta.”)[15].
Ma proprio tale condizione oppressiva spinge a spezzare il blocco della solitudine, della condanna all’inespresso, con la messa in scena di fantasmi mostruosi. Possibilità eccessive vengono alla luce attraverso «grandi irregolarità di linguaggio» che spezzano le rimozioni e collegano la rabbia distruttiva a una presa di coscienza agghiacciata. La comunicazione è crudele perché nasce dal silenzio e «désavoue la relation de celui qui parle avec ceux auxquels il s’adresse»(“ E sconfessa il rapporto di colui che parla con coloro cui si rivolge”).
La dialettica conflittuale fonda per Bataille, attraverso Sade e come in Baudelaire, una modalità di espressione che, a causa degli impedimenti con cui deve scontrarsi inizialmente, impone all’altro verità inaccettabili, quel che il pensiero si era vietato di pensare: «Le refus de communiquer est un moyen de communiquer plus hostile mais plus puissant»(“Il rifiuto di comunicare è un mezzo di comunicazione più ostile ma più potente.”). Su tale linea tracciata dall’ingorgo del linguaggio che poi erompe in forme deflagranti, percussive, si ripropone quell’esperienza dello choc che per Bataille s’iscrive dalla parte del male. Se per male si dovrà intendere, fra l’altro, una comunicazione che incide l’individualità isolata e, colpevole, la spalanca alla ferita fusionale. Ancora una volta è confrontandosi con un interlocutore di elezione che si andrà sempre più lontano, rompendo le difese e aprendosi «alla coscienza di sé».
A partire da Sade, in un percorso segnato da rinvii analogici, prolungamenti, snodi e riprese, Bataille giunge a riformulare, irraggiandolo su diversi piani interconnessi, il tema del supplizio sacrificale che colloca al centro della sua comunicazione espressiva. Il rapporto critico, sintonizzandosi a tale registro, si situa allora in una nuova prospettiva in cui l’incontro con l’alterità si colora delle tinte del sacrificio. Il legame fra il soggetto e l’oggetto – il critico e l’opera –, modellato sulla dinamica sacrificale, risulterà allora un processo reversibile: l’oggetto alterato dal soggetto potrà modificarlo a sua volta. L’opera, non più entità pietrificata da scrutare con distacco nel commento oggettivo, apparirà al contrario come una presenza viva, in espansione, che vibra e reagisce orientando lo sguardo che l’interroga. Il sacrificio è l’atto che produce la modificazione. Simile a una morte e a una rinascita, provoca un passaggio di stato dal profano al sacro, dall’identico al diverso.
Come una messa in scena, il sacrificio ha i suoi attori e il suo spazio definito: il soggetto sacrificante, l’oggetto sacrificato e il luogo del sacro (temenos) dove si produce l’evento. Ma il sacrificio prevede, come nella dimensione transferale dell’analisi, una rotazione nella distribuzione delle parti. Anche il rapporto critico può obbedire ad una scansione analoga. Se l’opera, centro di attrazione e irraggiamento, equivale in un primo tempo alla vittima che sprigiona, dopo l’aggressione rituale, la sua forza trasfiguratrice sul soggetto, i ruoli possono venire rovesciati ed è allora quest’ultimo che, divenuto vittima a sua volta, subisce e rilancia le forze che susciteranno una mutazione nel contatto. Ciò che non varia nella continua oscillazione delle parti è la dinamica essenziale di una comunicazione che intensifica, alterandole, le realtà in presenza. Dallo spostamento su di un piano sacralizzato che provoca l’accensione di potenzialità sconosciute, emergerà alla fine una nuova dimensione, ampliata e rivelatrice.
Le pagine finali de Les Larmes d’Eros vertiginosamente ruotano, avvitandosi, attorno all’immagine del suppliziato cinese. La congiunzione della voluttà eccessiva e dell’orrore nella passione estatica si effettua nella prospettiva aperta dal confronto con Sade. Il sacrificio, obbedendo alla sua funzione specifica di valore catartico, purificatore, consente a Bataille di esorcizzare in qualche modo i propri mostri. Proiettando sul palo del suppliziato cinese le parti tossiche, mortifere, e in questo senso, liberandosene, può riattivare potenzialità più proprie, più consonanti di sé, che il rapporto con Sade gli ha permesso d’intravvedere per poi prolungarle su di un’atra scena. Così, colui che l’ha iniziato all’esperienza torturata dell’eros e della morte, viene invocato come il proprio doppio che consenta di alleggerire il peso dell’angoscia per irrompere ai confini dell’impensato. In questo dialogo febbrile nelle zone dell’impossibile, Bataille, alla fine, avanzerà ancora più lontano nella rivelazione delle verità scabrose interdette al pensiero.
Come nel caso dell’opera di Sade occorreva porsi «all’altezza della morte» per accedervi, così solo tendendosi nell’esperienza dell’aperta dalla «scrittura-sacrificio» ci si può inoltrare nella comunicazione del silenzio. Se la poesia è «il sacrificio di cui le parole sono le vittime», l’incontro con l’alterità, nel registro irregolare del linguaggio sulla scena poetica, richiede lo stesso impatto rischioso.
Carlo Pasi
Note:
[1] Cfr. M. Schneider, Voleurs de mots, Paris, Gallimard, 1985, p. 84, «Il n’est de rapport à soi que réfléchi, c’est une vérité que la psychanalyse a tardivement redécouverte avec le transfert de Freud, l’identification de Klein et le stade du miroir de Lacan».
[2] Cfr. R. Schechner, Performers and Spectators transported and transformed, «The Kenyon Review», vol. III, n. 4, 1981 ; ed. it. A cura di V. Valentini, La teoria della performance 1970-1983, Roma, Bulzoni, p. 181: «Tutte le vere performance condividono questa qualità del “non e non-non”. Oliver non è Amleto, ma non è neanche “non Amleto”: la sua rappresentazione oscilla fra la negazione del personaggio impersonato (io sono io) e l’altra negazione di non essere lui (io sono Amleto). L’addestramento del performer è volto non tanto a trasformare una persona in un’altra, quanto a sviluppare le sue possibilità di agire fra due identità: in questo senso recitare è un paradigma di liminalità».
[3] A. Artaud, Trois textes lus à la galerie Pierre lors de l’exposition “Portraits et dessins” par A. Artaud, «Le Disque vert», 4 (1953) ; per tali aspetti cfr. C. Pasi, Artaud attore, Firenze, La casa Usher, 1989.
[4] Cfr. G. Macchia, Baudelaire critico (1939), nuova ed., Milano, Rizzoli, 1988; è stato il merito di Macchia l’aver per primo individuato nell’attività critica di Baudelaire un aspetto fondante della sua scrittura poetica.
[5] A quoi bon la critique ? in Salon de 1846, «…Le critique doit accomplir son devoir avec passion ; car pour être critique on n’en est pas moins homme, et la passion rapproche les temperaments analogues et soulève la raison à des hauteurs nouvelles». Per tali aspetti legati alla dinamica del desiderio cfr. N. Fusini, Che cos’è una cosa che pensa?, in La passione del conoscere, a cura di L. Preta, Bari, Laterza, 1993.
[6] Cfr. G. Deleuze, La littérature et la vie, in Critique et clinique, Paris, Ed. de Minuit, 1993 : «Ce qui fait la littérature dans la langue apparaît mieux : comme dit Proust, elle y trace précisément une sorte de langue étrangère, qui n’est pas un autre langue, ni un patois retrouvé, mais un devenir-autre de la langue, une minoration de cette langue majeure, un délire qui l’emporte, une ligne de sorcière qui s’échappe du système dominant».
[7] Fa parte di quel sotto-insieme sulla situazione del poeta nella prima sezione Spleen et Idéal de Les Fleurs du mal. La sua composizione dovrebbe risalire agli anni 1849-51.
[8] Si tratta di due quartine in lingua inglese di cui quella di H.W. Longfellow è tratta da A Psalm of Life, dalla raccolta Voices of the Night (1839). E. Poe l’aveva citata in epigrafe al Coeur révélateur : «Art is long, and time is fleeting,/And our hearts, though strong and brave,/As muffled drums are beating/Funeral marches to the grave». La seconda quartina appartiene alla celebre Elegy Written in a country Churchyard di Thomas Gray (1751), che Baudelaire adatta nelle terzine. Naturalmente nella traduzione-rielaborazione, il senso originario è completamente stravolto.
[9] Cfr. S. Freud, Verganglichkeit (1915), tr. It. Caducità, in Opere, Torino, Boringhieri, Vol. 8.
[10] Cfr. W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, in Angelus novus, ed. it. a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962.
[11] È infatti attraverso la conoscenza «eterologica», che Bataille può recuperare il rimosso della cultura occidentale, cfr. Dossier de le polémique avec André Breton, in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1970, vol. II.
[12] L’Erotisme, Paris, Ed. de Minuit, 1957, Introduction.
[13] Ivi.
[14] Nel testo della conferenza poi rielaborato per l’Introduction a L’Erotisme, Bataille aveva scritto: «L’union charnelle semble dans l’antiquité l’analogue d’un sacrifice où le sacrificateur masculin procédait à une sorte de mise à mort, c’est-à-dire à la mise à nu et à la pénétration de la victime féminine», ove il rapporto sacrificio-erotismo si fa evidente.
[15] Sade et l’homme normal, in L’Erotisme, cit.
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