Franco Rella
di Andrea Carnesecchi e Francesco Pratelli
Quale parte della sua libreria ama di più?
Ho amori da poligamo, amo allo stesso modo Benjamin, Proust e Kafka che considero l’autore più importante del XX secolo, un inarrivabile, così come ritengo inarrivabili anche gli altri due che vi ho citato. Nella mia vita hanno avuto un peso decisivo sia la filosofia che la letteratura, ho amato allo stesso modo testi come Dialettica negativa di Theodor Adorno e i Cahiers di Valéry o le Lettere di Flaubert. Un’importanza assoluta nella mia formazione l’hanno avuta anche Nietzsche e Freud, sul cui razionalismo mi sono formato. Altro amore immenso è stato Platone, credo di aver letto il Simposio almeno sei o sette volte, ma ho letto quattro o cinque volte anche Cuore di tenebra di Joseph Conrad.
Volendo fare un passo indietro, prima di scoprire questi grandi autori di cui ci sta parlando come si è avvicinato alla filosofia?
Devo dire che ho avuto da sempre una passione enorme per la lettura, una lettura onnivora e se volete, per certi versi, anche poco selettiva. Emilio Salgari, ad esempio, che leggevo ad otto anni, mi ha aperto la strada verso altre letture e verso altri autori, e così è stato anche per tutti gli altri autori che ho incontrato. La scoperta di Jack London, quando avevo dodici o tredici anni, è stata straordinaria. È stata la scoperta della lotta tra spirito e materia, tra il darwinismo spenceriano e lo spiritualismo, tematiche già in qualche modo filosofiche. A quattordici o quindici anni, invece, leggevo Sartre e Pavese e ricordo che il primo libro di Freud, i Tre saggi sulla teoria sessuale, l’ho letto ai tempi del ginnasio. Quindi per me le letture si sovrapponevano, sono stato anche un grande lettore di gialli e di polizieschi perché mi affascinava il senso dell’indagine, della ricerca, del mistero.
Quando poi, finito il liceo, mi sono trovato a dover dare un nome alla mia strada, ho scelto di studiare filosofia perché ho capito che, nella varietà delle mie letture, che come vi ho detto spaziavano dalla poesia alla narrativa e alla filosofia, quello che mi interessava davvero era il pensiero che vi era contenuto e non l’aspetto stilistico-formale, non la Storia della letteratura, o anche l’Analisi letteraria in senso stretto. Ho scelto dunque la Facoltà di filosofia ben consapevole che i miei interessi potevano essere garantiti non tanto dalla scelta di un indirizzo universitario, quanto piuttosto da una sorta di personale “disciplina del pensiero”. In questo senso il mio percorso è stato totalmente anomalo, figuratevi che non ho mai frequentato neanche una lezione. Sono stato un autodidatta.
Veramente?!
Letteralmente, neanche una lezione! E pur avendo avuto l’opportunità di convertire il presalario che mi spettava con un posto in un collegio universitario, ho preferito iniziare subito ad insegnare da studente non ancora laureato. Non mi piaceva l’idea della promiscuità di un collegio, né volevo accettare le regole che questo avrebbe comportato. Avevo il desiderio, forse anarchico, di indipendenza ed ho frequentato l’università solo per fare gli esami leggendomi tutto quanto per conto mio, anche per esami il cui carico di lavoro era notevole.
Anche per la mia tesi – mi sono laureato in Estetica con Gillo Dorfles – utilizzavo strumenti non prettamente filosofici quali la linguistica e l’analisi del testo poetico. È stata una tesi particolare, nella quale mettevo in gioco tutte quante le mie passioni, dalla letteratura, allo strutturalismo, alla psicanalisi lacaniana… tutte cose che, al tempo, in Italia venivano a fatica nominate. Il professor Mario Dal Pra, infatti, contestò il mio lavoro dicendomi che in filosofia, per prendere la lode, si devono fare tesi su Kant o su Hegel.
In questo suo “percorso anomalo” con la filosofia ci sono state persone particolarmente importanti da cui ha imparato come si lavora con il sapere?
Devo dirvi la verità, questa domanda mi è stata fatta anche da Antonio Gnoli quando mi ha intervistato per La Repubblica. Sono davvero un autodidatta, in tutto, non ho assolutamente un maestro in cui riconoscermi. I libri dello stesso Dorfles, libri per altro mirabili, non mi sono serviti a niente. L’ho scelto come relatore soltanto perché insegnava Estetica e perché era un gentiluomo, che stimavo personalmente, oltre al fatto decisivo che mi ha lasciato totale libertà. Ricordo che quando gli portai il primo pezzo di tesi lui mi disse: «Lo so che scrivi bene – tuttora non so come potesse saperlo – portami soltanto la tesi finita», e non so neanche se alla fine l’abbia letta o meno.
Veramente importante è stata invece l’opportunità che ho avuto di scrivere per una rivista chiamata Nuova Corrente, con cui abbiamo pubblicato dei numeri importanti, totalmente al di fuori dell’ambiente accademico. Pensate che prima ancora di diventare docente universitario avevo già avuto un’offerta da Feltrinelli per costruire un reading sulla critica freudiana. Era stato probabilmente Dorfles – c’era al di là di tutto una stima reciproca – a parlarne con Salvatore Veca. Nella sua collana, senza che fossi né docente universitario né avendo alle spalle altre pubblicazioni, ho pubblicato La critica freudiana. Subito dopo ottenni direttamente dal direttore di Feltrinelli, il contratto per scrivere dei libri iniziando una lunga collaborazione con la casa editrice. Anche questa è una fortuna che la vostra generazione non ha, quella di avere editori che abbiano la voglia di rischiare su dei giovani.
Una delle opere che Feltrinelli mi ha pubblicato è Il silenzio e le parole, che è forse il mio libro più fortunato. Vorrei leggervi la premessa perché la considero una specie di mia idea programmatica e credo costituisca il mio vero contributo alla filosofia, cioè il rapporto tra questa, la letteratura e l’arte: «Questo libro si muove in un campo circoscritto e liminare, dai confini poco definiti: in una zona che sta alla frontiera tra la letteratura e la filosofia. La scelta di questo spazio dipende dalla mia convinzione che qui, nel transito e nel rapporto tra queste due forme di pensiero, si siano prodotti nel nostro secolo – parlo del XX ovviamente – alcuni dei modelli più radicali di analisi critica del reale, che evidenziano in modo decisivo il mutamento dei quadri concettuali e delle immagini del pensiero finora dominanti». Tra gli altri, infatti, lì scrivevo di Freud di Benjamin e di Proust, il quale, anche dal punto di vista filosofico, nel suo Il tempo ritrovato ci offre l’estetica più complessa della modernità.
Un’altra idea importante che mi ha sempre accompagnato nelle mie ricerche è quella per cui, essendo la filosofia nata per dare risposte a domande radicali, non potesse prescindere da un vero e proprio pathos che investe il filosofo nel suo stesso interrogarsi. Il filosofo non può essere privo di passione proprio in quanto le domande che si pone, se hanno un senso, devono investire anche chi le pensa e chi le ripete dentro di sé. Da questo punto di vista ho fatto mio il detto di Eschilo, presente nel coro dell’Agamennone, secondo cui Zeus ha dato ai mortali il en pathei mathos, il sapere nel pathos. È l’idea che il rapporto tra la passione – il patire se vogliamo – e il mondo costituisce un vero e proprio sapere, anzi, il sapere. Nella mia filosofia dunque, nel mio stesso pormi come pensatore e non solo come filosofo, c’è sia questo transito tra filosofia e arte, sia questa dimensione “patica”, per cui, posso dire, che i miei libri raccontano anche la mia storia. A questo proposito Niva Lorenzini, recensendo già molti anni fa il mio libro Miti e figure del moderno, lo ha definito un «danzante romanzo nietzschiano», nel senso che questa dimensione di racconto all’interno del discorso filosofico è qualcosa che mi ha sempre accompagnato.
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Intervista realizzata il 19/11/2017
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