Fatti e Considerazioni di Franco Cerri

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Milleseicentodiciannove: 14 neri provenienti (pare) dalla Costa d’Avorio, vengono venduti come schiavi a coloni della Virginia. Intorno al 1920, si registrano su disco le prime orchestre Jazz.

Fra queste due date, prendono corpo e si concretizzano quelle che si potrebbero definire le caratteristiche basilari di una delle più affascinanti espressioni musicali del secolo passato: “L’esaltazione dei ritmi africani”, l’embrionale immagine dello swing (che più tardi troverà in Louis Armstrong il suo Maestro) e la grande avventura del blues, una delle strutture essenziali del Jazz. Penso che i primi blues-man possano essere considerati i cantautori dell’epoca che, girando di villaggio in città, raccontavano, cantando e accompagnandosi con la chitarra, le ingiustizie a cui veniva sottoposto il popolo nero. La gestazione del blues, un po’ misteriosa, lascerà nell’ombra questo appassionante capitolo della preistoria del Jazz e soltanto dopo le prime registrazioni ci si persuaderà che il blues esiste: genialmente costruito, semplice, invitante e capace di darti sempre nuovi stimoli (il blues è generalmente composto da tre sequenze di quattro battute ciascuna, modificate e trasformate attraverso il tempo).

Il Jazz può considerarsi una specie di etichetta sovrapposta a vari prodotti musicali; infatti il Jazz di Luis Armstrong è ben diverso da quello di Dizzie Gillespie, così come il modo di suonare espresso da Benny Goodman non ricorda il linguaggio di Charlie Parker e non ci porta nel mondo musicale di John Coltrane. Ciononostante di Jazz si tratta. È un linguaggio che si distingue per la libertà in cui vive, per l’immediatezza della sua reazione e per il modo di accentuarla e ritmarla che la caratterizza. A differenza del musicista classico che interpreta il pensiero del compositore seguendo quindi le “impostazioni” della partitura, il jazzista crea all’istante la propria musica, organizza il suono, il ritmo e la linea melodica fondendo, in un solo momento le sue capacità creative, strumentistiche e culturali. La preparazione culturale consente al musicista di esplorare in profondità i contenuti dei brani da eseguire. La buona conoscenza dello strumento gli permette di tradurre in musica il proprio mondo interiore.

La creativa capacità di comunicare. Infatti ad eccezione del tema e delle parti obbligate, il Jazz viene inventato e creato nel momento in cui si suona; è improvvisato, e quindi irripetibile. Si potrebbe addirittura eseguire lo stesso brano per tutta una serata senza mai (o quasi) ripetersi e trovandovi suoni, colori, ritmi differenti o idee e fraseggi e volte più felici, a volte meno. Si suona in un clima aleatorio, non programmato e si vive litigi, abbracci, successi o insuccessi, possono avere un peso determinante su ciò che musicalmente accade nel corso di una esecuzione. Ne siamo tutti coinvolti.

Naturalmente ogni musicista ha differenti caratteristiche legate alla propria personalità, per cui, quando improvvisa, si evidenzia il temperamento e la preparazione musicale che, uniti al momento socio-politico ed alle mode (molto spesso condizionanti) gli consentono un proprio discorso. Il musicista dà e riceve a sua volta suggerimenti e stimoli che aiutano ad ottenere l’amalgama indispensabile per poter suonare del Jazz in gruppo. Quando esegue degli obbligati, ma soprattutto durante l’improvvisazione, il jazzista deve rilassarsi al massimo e, per poterlo essere, è bene che non si ponga problemi tecnici e morali, come ad esempio le difficoltà strumentistiche o la mancanza di stima e di amicizia con il membri del gruppo.

C’è poi l’impatto con la platea e le conseguenze che questo comporta: la scelta del repertorio, la successione dei brani da eseguire, l’acustica, l’amplificazione, i suoni, la timbrica, l’estetica, l’emotività, la convinzione di essere preparati, la determinazione con cui rivolgersi a pubblico e critica, sperando di trasmettere loro “il messaggio” e poi tante sensazioni che, in fondo in fondo, fanno del palcoscenico una sorta di podio da cui parte un monologo che vorrebbe tanto diventare un dialogo. Un tale sosteneva, e non era il solo, che esistono due tipi di musica: quella buona e quella cattiva. Le etichette non ne sanciscono il valore; conosco parecchia musica classica mediocre e persino della buona musica rock. In ogni caso, al di là delle epoche, degli stili o delle etichette che continuano a produrre espressioni, messaggi e personaggi, il jazz, poiché ha la sua punta di diamante nell’improvvisazione, sarà sempre una musica nuova.

Si fa sempre più sentire la necessità di realizzare un’operazione “invito alla musica” e dare finalmente inizio ad una seria e chiara informazione, allo scopo di sganciare il pubblico dai condizionamenti eccessivi e dalle mode imposte da esigenze commerciali. Che fare nell’attesa di trovare la cura adatta per guarire questi mali? Dedicarsi alla musica? La risposta è sì, anche perché suonare ed ascoltare è certamente gratificante e la musica continuerà ad essere una delle rarissime medicine che non contengono controindicazioni.

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