Il Diritto alla Filosofia
Intervista a Giuseppe Panella
di Francesco Pratelli
Con la partecipazione di Pierluigi Sassetti
Pratelli: che cos’è per lei la filosofia?
Panella: Penso che la filosofia sia un’esperienza condivisa. E’ il mio pensiero che si confronta con i problemi che sono poi sempre gli stessi: dove siam? Dove andiamo? Che facciamo? Che cosa vogliamo? Soprattutto che cosa desideriamo? Ecco, che cosa desideriamo, e trasformarlo in un esperienza condivisa. Se questa esperienza è condivisa, effettivamente è filosofia, altrimenti c’è accademia, cioè uno studio accademico. C’è storia della filosofia, le varie discipline, ma la filosofia non ha settori disciplinari, cioè li ha accademicamente quando vai a fare gli esami all’università. Ma in realtà la filosofia ha un oggetto che è la soggettività umana e ha un compito che è l’etica. Etica viene intesa nel senso autentico del termine, cioè comportamento. La filosofia dovrebbe insegnare agli uomini come comportarsi, che cosa fare, come muoversi nella vita e in questo, appunto, etica e psicanalisi si incontrano, si ritrovano, perché sono entrambe forme che esaminano il desiderio umano. Il desiderio umano è quello di vivere felici, la felicità. Dopo il mio libro su Georges Bataille ho scritto un altro libro che si intitola Diario dell’altra vita, un libro di aforismi, un libro di scrittura, non un libro di ricerca, ma un libro di scrittura dove esamino questa dimensione della felicità. Il problema vero degli esseri umani, questo va da sé, ma anche della filosofia dovrebbe essere lo sguardo sulla felicità, il capire che cosa dà la felicità, perché la felicità non è soltanto il piacere. E’ il desiderio, la felicità è il desiderio, ma è anche la capacità di trasformare il desiderio in azioni, in conseguimenti, in eventi. Quindi una cosa che accade raramente, accade poche volte nel corso della vita umana, non è qualcosa che può essere un continuum, ma sono sprazzi, sono sezioni, sono baluginamenti. La felicità è qualcosa che affiora, non è mai qualcosa di stabile, cioè nessuno è sempre felice, altrimenti sarebbe scemo, sarebbe incapace di cogliere la differenza e la felicità si forma per differenza, si conosce per differenza. Questo per me è importantissimo, è stato importantissimo. La lezione di Schopenhauer quando parla appunto del dolore no? Della funzione del dolore perché appunto se non c’è dolore non c’è nemmeno il piacere: cioè il piacere e la felicità si conoscono come differenza, come rapporto e non come continuità. Non sei d’accordo?
Pratelli: certo…
Panella: nel senso che, voglio dire: la felicità è qualcosa che non si dà sempre, ed è il frutto di un conseguimento, di una ricerca, di un ritrovamento, si ritrova in determinate cose. Si è felici per determinate cose e non per altre. Non solo: non c’è una ricetta, non c’è una formula, ma avviene quando lo sguardo della filosofia riesce a cogliere quella dimensione esperienziale che è sua propria, che è propria della soggettività. Per cui, ripeto, la filosofia non ha dei campi, è tutta concentrata su questo. Poi ci possono diversi approcci, diversi modelli, diverse forme: c’è l’etica, appunto, c’è la teoretica, c’è l’estetica, ma tutti questi campi in realtà hanno come oggetto l’esperienza umana, l’esperienza dell’uomo, la sua soggettività e soprattutto il suo modo di rapportarsi con quello che, effettivamente, gli avviene intorno. Così come accadeva ai nostri antenati che abitavano a Lascaux o Altamira che dovevano andare a caccia per procurarsi il cibo, per riuscire a propiziarselo, per riuscire ad avere questo momento, questa realtà, là dipingono, dipingono la vita, la lasciano impressa su quelle mura, sulle pareti delle caverne. Lì ci sono i segni della loro speranza che sta tutta nell’ uccidere i bufali, i tori, gli animali che servono. Questa cosa fonde insieme l’etica e la bellezza, l’etica e l’estetica. Perché questi disegni sono belli, armoniosi, rappresentano, simbolizzano questa esperienza, ma nello stesso tempo sono la loro vita, hanno la capacità di rappresentare la loro vita. Contrariamente, quando l’arte si stacca dalla vita non è più rappresentazione della vita, diventa accademia, diventa forma accademica di rappresentazione di un reale. Può certamente essere anche questo, può essere armonia, ma non c’è più esperienza, non c’è più il cuore pulsante della soggettività umana.
Sassetti: il motivo per cui ti ho chiesto quest’intervista è perché incontro sempre più studenti che si lamentano di questo accademismo che viene spalmato in filosofia su ogni tipo di studio. Sentono una sorta di rapporto asettico, di distacco, di isolamento, di dispersione, di dover studiare tutto e poi alla fine non avere ben poco di concreto. Tutta la storia della filosofia, tutta la storia dell’estetica, ma poi, però, alla fine non hanno un orientamento. Al tempo stesso, viene fuori il discorso che un tempo, quando ad esempio eri studente universitario, c’erano altri tipi di studi, gli esami erano considerevoli, più massicci, più impegnativi e ben diversi da quelli di ora che sanno veramente di poco.
Panella: ci son due cose che sono cambiate fortemente: uno è il modello di studi, perché ora con il modello del “tre più due”, della triennale più la specializzazione, c’è un po’ un annacquamento degli studi, perché in tre anni chiaramente dovresti fare un programma di cinque, perché appunto quello vale come titolo di studio di per sé. La triennale vale come titolo di studio di per sé e quindi c’è il rischio della riduzione: programmi più piccoli, minor numero di pagine e così via. Ma anche la tesi di laurea di questi studenti della triennale è ridotta, non deve superare le cinquanta pagine. C’è quindi un lavoro ridotto anche nelle quantità oltre che nella qualità. Poi c’è la laurea magistrale che dovrebbe essere la specializzazione, che dovrebbe rendere uno specialista chi ha preso la laurea triennale. Ma questo poi non avviene perché la maggior parte delle cose che si fanno nella triennale si ripetono nella biennale, perché le materie sono più o meno le stesse, magari sono un poco più compatte. Però c’è questa divisione in due che è negativa nel senso che in realtà non permette uno sviluppo organico. La faccenda dell’accademismo è questa: se devi “stringere” appunto, gli esami devono comportare un certo numero di pagine che sono stabilite dai programmi universitari e che certamente non devono superare un certo numero di pagine, non devono essere pesanti per permettere di fare tanti esami nel giro di tre anni. Il rischio naturalmente è quello della superficialità, questo è chiaro. È anche vero che le discipline vanno perdendo, in certa misura le caratteristiche che avevano. Quando personalmente ho fatto l’università, non è che gli studenti fossero tutti bravissimi: c’erano anche tanti studenti che tiravano a campare, che si laureavano, molti si laureavano in filosofia perché veniva considerata una materia più facile rispetto ad altre facoltà. Non è che fossero tutti bravi, però molti si iscrivevano a filosofia perché avevano la convinzione che studiare filosofia, studiare storia, studiare le materie umanistiche, gli permettesse di capire meglio la realtà, la realtà in cui vivevano. La filosofia aveva una funzione di approccio alla realtà, non era solo perché magari gli esami erano più facili rispetto, ad esempio, alla facoltà di medicina, giusto per dirne una. C’era una tensione morale, chiamiamola così, che spingeva a studiare filosofia e ciò significava confrontarsi con delle realtà che erano oscure, non chiare, che non si capivano. E si pensava alla filosofia come ad uno strumento per risolvere questi enigmi. Forse, non lo so, oggi questa cosa, si è persa. Ci sono altre forme con cui la realtà viene aggredita, viene affrontata, però forse viene trattata anche in maniera superficiale. Cioè: se tu hai come termine di riferimento dei libri o hai come termine di riferimento delle esperienze alte, è una cosa; se, contrariamente, hai come termine di riferimento i social, la prospettiva cambia. C’è una maggiore superficializzazione. Oggi c’è chi parla di una morte della storia, della prospettiva storica, proprio perché l’orizzonte è quello di un eterno presente. L’orizzonte dei social, l’orizzonte del web è il presente, ed è lì, è di fronte a te. Però questo ti fa perdere delle prospettive. Invece per capire la realtà o capire la propria realtà, c’è bisogno di una prospettiva, di capire cosa ci fai, come ci sei arrivato, chi ti ci ha messo, che cosa succede nella vita. Quello che succede nella vita è quello che poi è la sostanza dell’esperienza, quello che poi tu sperimenterai. Se la tua esperienza è uno schermo di un computer è una cosa, se invece è appunto un orizzonte condiviso con il passato, con l’esperienza del passato è un altra. C’è un episodio, un aneddoto molto interessante che risale al ‘68: Angela Davis, la leader dei diritti civili degli afro-americani, che studiava all’università, chiese a Marcuse dei libri di filosofia da poter leggere, perché le interessava la filosofia e stava cercando qualcosa da poter leggere per capire la filosofia. Marcuse le disse: “Comincia con i presocratici”. Ovvero: riconnettiti ad una tradizione che è quella della cultura filosofica del passato e solo dopo, quando l’avrai esaurita, chiaramente non nella sua totalità, quando avrai uno sguardo storico e una capacità di coglierla, potrai dare il tuo giudizio, potrai dire appunto che cosa consideri vero e che cosa consideri falso, e al tempo stesso che cosa consideri giusto e cosa consideri sbagliato. Se tu quindi hai uno sguardo storico e hai una competenza, allora da questo punto di vista, potrai dire questo non mi piace. No? Non trovi? Se contrariamente il tuo sguardo rimane legato all’orizzonte puro e semplice del presente il rischio è che sia inevitabilmente superficiale.
Pratelli: quindi, secondo lei, è importante avere una prospettiva generale su tutta la storia della filosofia?
Panella: si, direi di si…
Pratelli: e se, ad esempio, qualcuno avesse già qualcosa di molto vicino ad un interesse specifico, a quali fonti può accedere per fare filosofia, in ogni caso prima dovrebbe confrontarsi con la storia?
Panella: dovrebbe confrontarsi, chiaramente non in maniera totale ovviamente. Cioè: è chiaro che nessuno può conoscere completamente tutta la storia della filosofia, però, come dire, confrontarsi con altre esperienze è di grande utilità, anzi è una necessità.
Pratelli: per farle un esempio, Wittgenstein, da quel che so, come ho letto da qualche parte, non conosceva Aristotele, nonostante fosse un grande logico, quindi non conosceva qualcuno che addirittura era nel suo campo di studio.
Panella: non direi. Wittgenstein ha certamente letto Aristotele e magari ha detto di non conoscerlo, ma non è detto che fosse vero. Anche Cartesio diceva che in tutta la sua vita aveva letto dodici libri di cui alcuni li conosceva solo per le copertine e non è vero, è una bugia, cioè fa parte della costruzione del personaggio. Sicuramente, Wittgenstein non aveva conoscenze filologiche approfondite di Aristotele, però certamente il pensiero su Aristotele lo conosceva perché lo confuta, quindi ci si doveva confrontare per forza. Poi, se non avesse conosciuto quello di Aristotele, conosceva sicuramente quello di Bertrand Russell. Il problema è questo: è chiaro che se tu hai già delle idee e hai dei problemi devi sviluppare quelli, ma uno sguardo altro, un confronto con qualcosa di diverso è inevitabile che sia necessario.
Pratelli: ma quanto in profondità deve andare questo sguardo, cioè qual’è il limite?
Panella: il limite è quello di una conoscenza, di una buona conoscenza, ma ovviamente non filologica, cioè una conoscenza che sia in grado di dare il senso delle esperienze altre. Non puoi dire ad esempio: “Non mi interessa la fenomenologia!”, però non sai cosa dice Husserl, qual è il pensiero di Husserl. Lo devi conoscere per poterlo negare.
Pratelli: per negare bisogna sapere cosa si nega, certamente. Qualche istante fa parlava delle varie discipline filosofiche e diceva a tal proposito che comunque rientrano tutte, nell’etica che il fine è, diciamo, l’etica. Quindi queste varie discipline in che rapporto sono? Ognuna di queste è diciamo il problema di chi se lo pone e come deve vivere a seconda di questo problema oppure sono qualcos’altro?
Panella: la divisione disciplinare, in realtà, è una divisione di comodo. Serve appunto a suddividere i settori, serve anche a rendere più semplice per certi aspetti la conoscenza, per esempio degli autori. Non so se hai presente i manuali scolastici. Si dice ad esempio: “Questa è l’etica di Hegel, questa è l’etica di Wittgenstein” perché appunto questo aiuta ad orizzontarsi all’interno di un autore che magari affrontato in blocco, rischierebbe di essere chiuso, rischierebbe di bloccare. Però è anche vero che in un progetto filosofico, in una conoscenza veramente compiuta della filosofia, tutti i settori stanno a sé, tutti i grandi filosofi si sono cimentati con larghe zone del sapere umano. Una specializzazione eccessiva rischia di essere certamente fruttuosa da un punto di vista della conoscenza, ma anche di non dare sapere. Ecco, questa è la differenza secondo me fondamentale tra conoscenza e sapere: tu hai un sapere quando quello che hai conosciuto lo hai fatto diventare tuo, ti è entrato dentro, lo hai introiettato. Quando questa conoscenza sa di qualcosa. Sapere vuol dire appunto questo: avere un sapore, sapere di qualcosa. Quando tu, diciamo, raggiungi questo sapere, questo sapere diventa anche una cosa che puoi comunicare agli altri.
Pratelli: questo secondo lei non si può fare focalizzandosi … solo su una disciplina?
Panella: diciamo di no. Cioè: diciamo che focalizzandoti su una disciplina, tu hai una conoscenza che può essere una conoscenza anche molto approfondita, ma non è un sapere.
Pratelli: e il sapere emerge unendo questa conoscenza di questa precisa disciplina…
Panella: all’esperienza di questa precisa disciplina.
Pratelli: e l’esperienza della disciplina in cosa consiste?
Panella: consiste nella capacita di coglierne il livello concreto. Faccio un esempio: tu vuoi conoscere la storia dell’estetica e avere anche delle conoscenze di filosofia dell’arte, però se non conosci le opere d’arte non te ne fai niente. Cioè uno studioso di estetica deve conoscere le opere d’arte perché altrimenti il sapere è conoscenza ma non è sapere. Nel momento in cui tu riesci a conoscere le opere d’arte e ad appropriartene allora hai un sapere estetico e lo stesso vale per l’etica. Cioè: tu puoi conoscere tutte le teorie che ogni filosofo ha dato, una propria versione, una propria dimensione dell’estetica. Ma se queste conoscenze non vengono verificate sul livello pratico, su quelli che sono i problemi dell’etica rimane appunto conoscenza e non sapere. È anche una questione diversa: il sapere serve a vivere, la conoscenza serve appunto a conoscere, ad avere conoscenza dei problemi, a cogliere il livello dei problemi. Farei questa differenza appunto, fra conoscenza e sapere. In realtà la filosofia è sapere, non tanto perché sia sapienza, ma perché sia esperienza, capacità di cogliere i problemi. Ovvio che questo richiede un approfondimento. Il sapere è un approfondimento della conoscenza, cioè: tu puoi sapere tutto quello che dicono gli altri filosofi, però se poi alla fine questa conoscenza non diviene una tua visione, una tua idea dei problemi, non è sapere, non risulta un sapere.
Pratelli: Perfetto, ma torniamo per un momento all’ambito dell’università. Come chiariva poco fa anche Sassetti, io sono uno studente del primo anno, quindi, per ora, ho poca esperienza e procedo per pura curiosità …
Panella: dati già esami?
Pratelli: solo quattro esami, per ora, e l’impressione che ho avuto è un senso di distacco nel rapporto con i professori e forse troppo accademismo. Cioè: secondo lei è importante un rapporto diciamo uno-a-uno fra lo studente e il professore? Un professore che conosce chi ha davanti, quali siano i suoi bisogni e le sue capacità e aiuta per ricercarne il senso?
Panella: dipende molto dal professore, cioè dalla sua capacità di creare un rapporto empatico e anche da parte dello studente però, non limitandosi a considerare il professore come un puro e semplice tramite di conoscenza, ma come un referente, cioè come qualcuno che produce sapere. Questo non è semplice. Anche l’insegnamento crea problemi da questo punto di vista, cioè l’insegnamento dovrebbe diventare produzione di sapere, però non sempre riesce e si limita ad essere una produzione di conoscenza, di nozioni. Uscire da questa dimensione dovrebbe essere lo sforzo di chi insegna, ma anche di chi apprende, cioè non limitarsi a ripetere a chi insegna quello che ha ricevuto.
Pratelli: questo è il problema che ho notato, ad esempio, agli esami. Durante le lezioni, i docenti spiegano e all’esame devi ripetere esattamente quello che ti hanno detto.
Panella: questo semplifica tutto no? Cioè rende tutto molto più semplice. È ovvio che ci sono delle difficoltà, nel senso: se tu vai a lezione, senti quello che ti serve a lezione e lo ripeti, è chiaro che hai capito quello che ti hanno detto, e questo dà delle garanzie a chi ti interroga. Sicuramente è ovvio che bisognerebbe andare più a fondo, vedere come hai fatto tuo tutto quello che sai. Però, per fare questo, probabilmente, l’esame è il luogo meno adatto.
Pratelli: e quale sarebbe un buon luogo?
Panella: i seminari. Diciamo che la lezione frontale è generica, rivolta a tutti. Contrariamente le lezioni seminariali dovrebbero essere quelle di approfondimento. Foucault, ad esempio, teneva una serie di lezioni che erano delle conferenze, proprio delle conferenze e c’era moltissima gente, veramente. Lo assediavano intorno alla cattedra, si sedevano letteralmente sulla cattedra. C’era una grande folla. È chiaro che in quel contesto, non era possibile un insegnamento specifico e diretto: Foucault diceva delle cose, faceva una conferenza, mentre gli studenti, quelli che ascoltavano (e molti non erano studenti ma persone interessate a quello che diceva Foucault e registravano), sentivano quello che diceva e la cosa rimaneva lì. Ma Foucault realizzava anche un seminario che era riservato solo ad un certo numero di persone, non necessariamente studenti, ma persone interessate e che erano andate a chiederglielo. In questo seminario questi studenti, cioè questi studenti partecipanti, avevano una parte attiva, cioè non si limitavano ad ascoltare quello che lui diceva, ma svolgevano delle ricerche, proponevano delle ipotesi, lavoravano con lui. Ecco questo dovrebbe essere il livello, cioè in due parti: da un lato un sapere distribuito a tutti, anche più generico, e un sapere approfondito su problemi.
Pratelli: una cosa legata all’interesse…
Panella: legato a chi interessa, certamente. Ora, però, questo richiede un impegno notevole. Comunque, nella tua facoltà tutti gli insegnamenti hanno il loro seminario da quello che ricordo io.
Pratelli: non lo so, per ora ho dato soltanto quattro esami di “istituzioni”, quindi sono ad un livello base.
Panella: quelli rappresentano la base, che non è certamente evitabile e che può essere anche una fase un po’ noiosa, ma, come dire, è come saper fare le addizioni e non passare direttamente al calcolo degli integrali.
Pratelli: si, non lo metto in dubbio, ma uno studente in questo contesto, se poi si mette a pensare seriamente al proprio futuro, si riempie la testa di problematiche. Non solo come approcciarsi allo studio, ma anche come scrivere. Ho pensato che se un giorno riuscirò a diventare un filosofo, se così si può dire, dovrò scrivere qualcosa, e come imparo a farlo? Questa è una faccenda che per quanto ne so, non viene insegnata a lezione..
Panella: no, non viene insegnato a lezione. Questo non viene insegnato a lezione probabilmente anche perché non si può insegnare. Quello che si può insegnare è diciamo la dimensione formale, cioè come si scrive, come si scrive un articolo, come si scrive un libro. Per esempio come si fanno le citazioni, come si trovano le citazioni, come si va in biblioteca. Questo si può insegnare, questo dovrebbe essere insegnato. Quello che non si può insegnare ovviamente sono i contenuti perché quelli sono tuoi, sono legati al modo in cui tu hai elaborato quello che hai letto, quello che hai appreso, quello che hai conosciuto. Cioè formalmente sì, si può insegnare … è come dire come si fa a insegnare la scrittura creativa. Chiaramente la grammatica si può insegnare, ma non la creatività.
Pratelli: per quanto ho visto, vengono dati soltanto i contenuti e, come ha detto anche lei, poi, dopo sta al singolo studente svilupparli per poi utilizzarli. Però vengono dati soltanto i contenuti, non è mostrato il metodo per essere un filosofo. Se esiste poi un metodo per essere filosofi.
Panella: sai questo, è un grosso problema. Prima di tutto bisogna stabilire se c’è un metodo e soprattutto se questo metodo vale per ognuno. Cioè ognuno può avere un approccio diverso, quindi c’è il rischio poi di imporlo, di fare accademia ancora, cioè: “Si pensa così!”. Il grande risultato che i grandi filosofi hanno avuto è stato proprio questo, ad esempio, non so, Hegel, Heidegger, no? Ovvero che loro hanno insegnato ai loro allievi non tanto delle conoscenze, non gli hanno dato tanto delle conoscenze, ma gli hanno insegnato a pensare, cioè la capacità di imparare a pensare; anche se poi questi allievi hanno fatto altre cose oppure si sono messi contro il maestro, però c’è un insegnamento a pensare. Il grande merito di Heidegger, di cui adesso non si parla più perché tutti devono dare addosso ad Heidegger perché era considerato un nazista. Ma Heidegger era anche questo, cioè, era stato anche nazista, nessuno lo mette in dubbio, anzi lo era. Però, i grandi allievi di Heidegger, quelli che hanno sviluppato la lezione del maestro, sono coloro che sono riusciti ad imparare, a pensare seguendo le sue lezioni. Questi grandi come Gadamer, Hanna Arendt, come Jonas, Hans Jonas. Tutti questi che odiavano anche Heidegger perché era nazista, hanno però appreso come ci si orienta nel pensiero, come si riesce a costruire il pensiero.
Pratelli: quindi un buon insegnante è colui che insegna il suo metodo?
Panella: insegna a pensare, sì.
Pratelli: insegna a pensare…
Panella: il bravo insegnante è anche quello che, ovviamente, dice delle cose che vanno imparate, cioè ha competenza di quello di cui parla. Ma il grande insegnante è anche colui che riesce soprattutto a trasformare ciò che insegna in insegnamento ulteriore, cioè insegna come orientarsi nel pensiero, quale è il metodo. Ma questo metodo poi lo devi ricavare tu da quello che il tuo insegnante dice.
Pratelli: se posso permettermi, lei come lo ha ottenuto questo metodo?
Panella: mah, con due esperienze fondamentali. La prima riguarda i seminari diRemo Bodei che ho frequentato alla Scuola Normale. Erano seminari ridotti come numero di partecipanti. Mi sono poi laureato poi con Bodei. In questi seminari Bodei, proponeva le sue esperienze, cioè leggeva dei libri su un argomento e le raccontava: non diceva questa è la verità, ma in questo libro c’è scritto questo, questo e questo, e se ne può ricavare questo. Il tuo compito era quello di dire se ti sembrava giusto o no. A furia di confrontarti con esperienze altrui viene poi fuori un‘esperienza tua, personale. Questa è stata la mia esperienza seminariale, perciò insistevo sui seminari, che non sono conferenze, ma momenti di riflessione in comune che richiedono fatica anche da parte di chi vi partecipa, anche da parte degli studenti. La seconda esperienza è stata appunto la frequenza ai corsi di Michel Foucault a Parigi. Questa è stata la mia via per capire il senso della ricerca, cioè che lo studio non sia soltanto un’acquisizione di nozioni, che peraltro in alcuni casi sono importanti. Se tu confondi Hegel con Aristotele questo mi sembra un errore grave, oppure se pensi che Aristotele sia un filosofo allo stesso modo di Husserl è chiaro che fai delle confusioni. Però, poi, in realtà, quello che conta è la capacità di confrontarti con le esperienze altrui, verificarle diciamo su di te, cioè se ti convincono e poi formularne di proprie.
Pratelli: adesso mi ha fatto ripensare alla storia della filosofia e quindi al suo apprendimento. Volevo chiederle se, secondo lei, vanno privilegiati i libri d’autore, i testi, o unicamente i manuali di sintesi?
Panella: benissimo, possono essere accettate anche le sintesi, la maggior parte diciamo di quelli che poi sono diventati filosofi si sono formati più sui manuali piuttosto che sui testi specifici. Ovviamente questo dipende dall’autore. Per dire, Cartesio non ha mai studiato da nessuna parte né ha mai insegnato filosofia, cioè lui faceva delle esperienze, faceva degli esperimenti no? Riflessioni che poi scriveva. Oppure Hegel, dove i momenti in cui faceva lezione erano fondamentali per far venire fuori i suoi libri. Lo stesso vale per Heidegger, cioè era l’insegnamento che poi confluiva nel testo scritto, non c’erano due momenti, separati. Già questo è molto importante, ma poi questo dipende. Secondo me il problema può essere il seguente: da un certo punto della storia della filosofia, la filosofia sta per conto suo, cioè non ha rapporti con l’università. I grandi filosofi fino a Kant non sono professori, sono filosofi. Spinoza faceva l’intagliatore di vetri, di lenti, era appunto un ottico, come si direbbe oggi, intagliava le lenti. Cartesio viveva di rendita, faceva degli esperimenti, ma non è che avesse grandi rapporti con l’università e quando gli ha avuti sono stati abbastanza catastrofici. Leibniz invece faceva il bibliotecario, eppure tutti questi sono pensatori di altissimo livello. È con Kant che in realtà c’è questo rapporto, ovvero il filosofo diventa professore di filosofia. È anche vero che questo diventa una necessità oggettiva, cioè per fare il filosofo devi avere una fonte di reddito quindi l’insegnamento diventa la fonte di reddito principale del filosofo. Però comporta poi anche dei problemi, nel senso che ovviamente poi non puoi essere completamente al di fuori delle regole dell’accademia.
Pratelli: devi essere un professore…
Panella: devi essere un professore, devi fare il professore appunto come quando il rettore di Cambridge rimproverava Wittgenstein perché non portava giacca e cravatta. Cioè, è chiaro che ci sono delle regole e Wittgenstein si scocciava di mettere la cravatta perché aveva un atteggiamento, diciamo, un po’ iconoclasta. Ora, ripeto, il problema è questo: quando la filosofia diventa, si lega a filo doppio, con l’accademia, allora lì c’è un problema, nel senso che l’insegnamento filosofico non è più libero ma vincolato ai programmi, all’insegnamento, al fatto di dare delle lauree ecc.. ecc.. Però, purtroppo, questo è un punto di non ritorno, cioè non si può tornare indietro ora. Uno può fare il filosofo libero e indipendente, ad ogni modo, la sua parola rischia di essere ascoltata meno rispetto a quella di un professore.
Pratelli: è importante frequentare le università per questo..
Panella: è questo, questo è il passaggio. Fare il dilettante non è più possibile, capito? C’è il rischio di essere accusati di dilettantismo. Invece ci vuole una professionalità, ma tutto non si esaurisce qui ovviamente. Cioè è un po’ difficile uscire dall’ottica dell’università perché in effetti la formazione avviene lì ormai, non più nelle scuole medie-superiori, cioè non più nei licei. Una volta il liceo poteva anche bastare perché dava un sapere globale, più ampio, anche più approfondito, e l’università era il momento dell’approfondimento. Però è anche vero che se tu ti limiti a questo non sarai mai originale.
Pratelli: quindi sarebbe opportuno unire l’apprendimento universitario con un apprendimento personale.
Panella: con una ricerca personale, con una ricerca personale nel settore che si ritiene più vicino a noi.
Pratelli: e quello va trovato…
Panella: va trovato, certamente. Ma non solo va trovato, ma va anche un po’ sperimentato. Perché se poi non ti piace, non ti interessa è inutile continuare in quella direzione. Per esempio tu che corsi hai seguito?
Pratelli: ho fatto i tre esami di istituzioni, da storia della filosofia antica, storia della filosofia medievale, logica. Poi ho dato un esame da dodici crediti di filosofia morale e adesso ne sto preparando uno di teoretica. Comunque, per il momento, in questi studi non ho trovato niente di particolarmente appassionante.
Panella: filosofia antica?
Pratelli: si trattava di un corso sull’eros che comprendeva tre dialoghi platonici: Fedro, Simposio e Gorgia, più alcuni testi a scelta. All’esame ho portato La farmacia di Platone di Derrida e Le ragioni dell’amore di Frankfurt. Un esame che a conti fatti mi ha dato la possibilità di leggere Derrida e mi è piaciuto moltissimo quel libro, anche se ho dovuto faticare non poco.
Panella: è un testo molto complesso.
Pratelli: ho dovuto leggerlo diverse volte e non so nemmeno quanto possa dire di averlo compreso. Però mi ha appassionato molto. Comunque, un’altra domanda che le volevo fare riguarda le università straniere: è consigliabile anche studiare all’estero o può bastare in Italia? E soprattutto c’è qualche luogo preciso dove farlo una volta consapevoli della direzione filosofica verso cui andare?
Panella: se ti interessano questioni diciamo di filosofia teoretica o analitica, allora il posto migliore è l’Inghilterra o la Germania, ma soprattutto l’Inghilterra. Università come Oxford, Cambridge. Se sei interessato più a questioni di etica o di estetica direi di consigliare la Francia, e non necessariamente Parigi.
Pratelli: come si fa a scegliere?
Panella: dipende, ma più che altro ci sarebbe da individuare un professore, individuare una guida, un autore che ti interessa. Dovresti fare un Erasmus…
Pratelli: ci ho pensato, cercando un professore in particolare, ma non conosco nessuno, e non saprei nemmeno verso quale ambito focalizzarmi…
Panella: dipende appunto dalla disciplina che ti interessa…
Pratelli: è questo infatti il problema. Ultimamente mi sono molto appassionando a Wittgenstein…
Panella: per studiare Wittgenstein puoi stare tranquillamente in Italia perché ci sono stati importantissimi studiosi di Wittgenstein qui da noi. Pensa a Pisa dove ha studiato Gargani, insomma dove ha insegnato Gargani.
Sassetti: è morto poverino.
Panella: sì, purtroppo è morto. Per quanto riguarda Wittgenstein e i problemi di filosofia del linguaggio, purtroppo a Pisa è morto Gargani quindi non c’è più nessuno. Per esempio c’è un centro, credo ci sia, non lo so con precisione, c’è una cattedra di filosofia della mente a Torino, c’è un mio vecchio amico che si chiama Andrea Voltolini che fa ricerche un po’ simili alle tue…
Sassetti: ma come hai maturato l’idea di andare a Parigi?
Panella: c’era una borsa di studio che potevo prendere e sono andato a Parigi. C’ero già andato per conto mio a sentire Foucault perché avevo degli amici. Insomma, per me era un ambiente favorevole. Ma, per esempio, se tu vuoi andare a Parigi devi lottare con un sacco di altri studenti, mentre c’è sicuramente meno gente che vuole andare in Polonia tanto per dirne una. Infatti si trovano facilmente le borse di studio per la Polonia. Ma questo dipende dall’occasione, perché poi, per l’Erasmus, devi fare un concorso dove sono importanti i voti e tutta una serie di accadimenti burocratici. Cioè non basta dire che voglio andare ad Oxford perché devi fare una selezione. Ai miei tempi, ebbi la fortuna di questa borsa di studio della Scuola Normale Superiore. Ci sono comunque delle università dove è più facile accedere rispetto ad altre, perché c’è meno richiesta. Oxford e Cambridge sono molto gettonate, mentre invece ci sono università minori in Inghilterra dove è più facile andare. Lo stesso vale per la Francia. So che ad esempio, ci sono buone possibilità se tu scegli di andare a Poitiers o a Nizza piuttosto che a Parigi.
Pratelli: però dipende sempre dal professore..
Panella: però dipende dal campo, da quello che ti interessa appunto. Diciamo che i posti dove non vuole andare nessuno, perché è più complicato, sono le università tedesche.
Sassetti: per un discorso di lingua..
Panella: per un discorso di lingua sì, perché con l’inglese, francese, spagnolo, uno può più facilmente cavarsela. Anche la Spagna è richiestissima. A Tubinga o Amburgo c’è molta più richiesta. Poi, ti ripeto, dipende! Un posto dove è facile andare, ma senza Erasmus, perché devi pagare tu stesso le tasse è Yale, cioè in America.
Pratelli: non vorrei prenderle ulteriore tempo. So che lei ha lezione, e in questo momento sto pensando ad un titolo da dare a questa nostra intervista, a questo nostro incontro…
Panella: ma, visto che ti piace Derrida, proseguirei su questa strada. La intitolerei: “Il diritto alla filosofia”. Sai, Derrida ha scritto un libro che si chiama appunto “Il diritto alla filosofia”, perché voleva reagire al fatto che in Francia stanno cercando, ma anche in Italia non ti credere, di togliere, di ridurre le ore di filosofia nelle scuole. In questo libro sostiene invece la necessità, l’importanza, la fondamentalità della filosofia non tanto come disciplina, perché in Francia non si studia storicamente come in Italia, ma come disciplina formativa, proprio come ossatura della formazione dell’uomo. In Francia non studiano la filosofia come facciamo noi, certamente studiano anche gli autori, ma non nella prospettiva italiana della storia, ma come problemi filosofici visti da determinati autori. Teoretica appunto, ed è una cosa un po’ diversa. E Derrida appunto, per reagire contro questa tendenza che voleva trasformare la filosofia in scienze umane, ha scritto questo libro. Attualmente, in molti istituti superiori, si studiano solo scienze umane, non si studia filosofia…
Sassetti: si, pedagogia, psicologia, antropologia e sociologia.
Panella: la filosofia, secondo me, ha uno statuto tutto suo. Cioè non è antropologia, non è psicologia, non è pedagogia. Sì, certamente, sono presenti, ma la filosofia è proprio l’etica appunto.
Pratelli: ma perché è meno scientifica?
Panella: mah senti, questo è un po’ difficile da stabilire cosa è scientifico e cosa no: se si basano sull’accumulazione di dati, cioè se scientifico significa basato sull’accumulazione di dati..
Pratelli: si intendevo quello.
Panella: si, ma se si tratta di coerenza interna, allora no! Cioè anche la filosofia è una scienza, è una scienza dell’uomo, cioè una scienza del modo in cui l’uomo si confronta con la realtà. Certo non ci sono dati, non è numerizzabile, non è trasformabile quantitativamente la filosofia no?, E’ tutto qualitativo…
Sassetti: non c’è statistica …
Panella: non è statistica, però io poi voglio vedere la statistica come funziona nella psicologia. Cioè puoi fare i test, quello si; oppure anche in pedagogia funziona quantitativamente, è chiaro che è stata sempre di un approccio di tipo qualitativo. Però la filosofia ha uno statuto suo che è quello antico cioè di amore per la sapienza come diceva, come si diceva ai tempi di Platone e di Aristotele…
Intervista realizzata presso il Centro di Ascolto e Orientamento Psicoanalitico di Pistoia.
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