Alessandro Guidi
DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI
Nel preparare questa intervista, ci siamo interrogati sui possibili punti di contatto tra la filosofia, che lei ha studiato al tempo dell’università, e la psicoanalisi, che con il tempo è divenuta invece la sua professione. Vorrebbe parlarci del rapporto che lega queste due discipline e della strada che lei ha percorso tra le due?
Vorrei innanzitutto fare una precisazione per me importante: il mio interesse per la filosofia è posteriore a quello per la psicoanalisi, ed entrambi sono posteriori al mio originario rapporto con il mistero. Fin dalle Scuole Medie, infatti, iniziai ad interessarmi al mistero dell’uomo e ad interrogarmi sul suo rapporto con la morte, con la sua esistenza, con il suo passato e con il suo presente… le consuete domande leopardiane, insomma. Ma ad affascinarmi era anche il mistero inteso come para-psicologia, cioè i misteri della mente, la telecinesi, il movimento a distanza e così via, tutti ambiti che iniziai ad approfondire da autodidatta poiché ne ero molto affascinato. Tutto questo finché non incontrai un professore di Religione che mi consigliò di leggere un libro che si occupava proprio della demistificazione di questi ciarlatani, mettendo in rilievo il fatto che tutte queste teorie appartengono in un certo modo alla magia, e che al di sopra del magico c’è l’Uno, l’Uno che è Dio e quindi la religione. Ricordo che cercò di smontare le mie convinzioni facendomi leggere questo libro di Carlos María de Heredia – un libro di origine messicana molto raro, al tempo addirittura introvabile – che possiedo ancora e che, purtroppo, non potrò più restituirli perché questo mio vecchio professore di Religione è morto. D’altra parte, se poi non me lo ha più chiesto indietro vuol dire che me lo voleva donare, e di questo non posso che ringraziarlo a posteriori.
Inizialmente, quindi, a catturare la mia attenzione è stato il mistero della mente, possiamo chiamarlo il mistero dell’influenzamento reciproco delle menti, e cioè quella enigmatica energia invisibile che si rivela in certe situazioni singolari, come quando, per esempio, parlando con uno sconosciuto, si pensa: «Eppure mi sembra di averlo sempre conosciuto, mi ha trasmesso qualcosa, come è possibile?». Dal mistero di questa energia invisibile, piano piano, sono passato al mistero dell’inconscio, e questo grazie all’incontro fondamentale che ho avuto con Sergio Finzi, il mio insegnante di Filosofia delle scuole superiori. Era il 1974 ed erano appena stati pubblicati gli Scritti di Jaques Lacan, autore per me fondamentale che lessi per la prima volta proprio grazie a lui. Da quel momento mi si è davvero aperto un mondo poiché finalmente ho compreso il perché il mistero mi avesse da sempre interessato: se la mia indagine era rivolta verso il mistero dell’uomo, verso il mistero dell’inconscio, era perché attraverso di esso potevo sentirmi libero, indipendente da qualunque concetto e da qualsiasi definizione possibile. In effetti, posso dire di avere da sempre coniugato l’idea di mistero con il concetto di libertà.
Leggendo Lacan, infatti, il mio pensiero ha preso sempre più una china ben precisa, ha preso consapevolezza di qualcosa che sfugge alla ragione, che sfugge alla significazione del testo. Nella lettura del testo c’è sempre qualcosa che va al di là di esso, qualcosa che non si riesce a codificare ma che si intravede, si percepisce, si sente ma sta altrove e sfugge. Quest’altrove è misterioso, è il mistero stesso, eppure assieme ad esso è sempre presente anche il desiderio di saperne di più e così si inizia ad andare dietro a questa sorta di “falena del mistero”. Fu lo stesso Finzi che, volendomi dare un consiglio per la mia formazione, mi disse: «Studia filosofia, perché ti fornisce una formazione solida sull’uomo, sulle scienze umane». Per questo, come vi ho detto, ho attraversato la filosofia ma sempre pensando alla psicoanalisi.
Quindi la psicoanalisi è sempre stata al centro dei suoi interessi…
Sempre! Il mio obbiettivo di fondo era già a quel tempo quello di fare lo psicoanalista, cioè di occuparmi del mistero dell’altro, del suo disagio, delle sue preoccupazioni e delle sue questioni. Mi ricordo, infatti, che fin dalle scuole medie i miei compagni di classe si confidavano volentieri con me ed io stesso li ascoltavo con attenzione, rimanendo affascinato dall’ascolto delle cose misteriose che capitavano nelle loro vite e di cui si domandavano i motivi e le spiegazioni. Mi chiedevo perché sentissero dentro di sé quel che effettivamente stavano provando, del perché gli capitasse quel che effettivamente gli capitava. In fondo non facevo altro che seguire la mia natura, il mio istinto. Questi aspetti mi hanno incuriosito sempre di più, finché sono arrivato a fare quello che desideravo e che mi piaceva. Ho solo seguito la mia indole.
La filosofia, quindi, l’ho inserita nei miei interessi come strumento di indagine, a corroborazione di tutti gli altri strumenti psicoanalitici, utile soprattutto per l’epistemologia dei testi, per imparare a leggerli e per poter avere un controllo razionale delle loro parti emotive, sfuggenti, che vanno al di là del testo fino a sfociare nel paradosso. Il paradosso non può mai essere sciolto, non si può dividere nei suoi due lati; pensate per esempio, al pensiero e all’essere nella formula lacaniana: è una formula che non può esser scissa, occorre tenere insieme i due lati che la compongono senza spezzarne l’articolazione. Da una parte c’è il cogito cartesiano, l’Io penso, la razionalità, la ragione, l’inquadramento geometrico e scientifico del mondo, dall’altra parte c’è l’Essere, che altro non è che l’Es di Freud e Lacan. Questa è l’articolazione fra Immaginario, Simbolico e Reale in un unico nodo che è quello Borromeo, un’articolazione, appunto, in tre registri.
Per tutto questo, dunque, mi è servita la strumentazione filosofico-epistemologica, mi è servita da mappatura, come una mappa fatta di tanti percorsi diversi che da un’ipotetica autostrada potesse condurmi al labirinto delle campagne, al viottolo, alla strada interrotta. Questa sorta di “mappa filosofica”, a mio modo di vedere, era già iscritta nel campo analitico di Lacan. Quindi la filosofia per me era questo, una grande mappa capace di orientarmi che mi faceva da bussola e che mi permetteva di addentrarmi nel mare del mistero dell’inconscio senza perdermi. Gli strumenti lacaniani, poi, erano più moderni rispetto a quelli freudiani, più vicini alle teorie del Novecento come la logica e la linguistica. Ma non solo la filosofia e la linguistica, anche la letteratura, la giurisprudenza, l’antropologia sono strumenti che possono corroborare il lavoro dell’analista, chiarire che cosa sia l’inconscio e cosa ne costituisca il mistero pur senza poter mai arrivare ad afferrarlo in quanto inafferrabile per natura. La filosofia fa parte di questa mia strumentazione che possiamo definire scientifica, umana, o come preferisco chiamarla, disumana. L’uomo è disumano e solo quando è troppo umano diventa una bestia.
Intervista realizzata il 22/02/17
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