Sandro Bernardi – Pasolini: il paesaggio del sacro
All’inizio del film Medea, Giasone riceve dal centauro la sua educazione sulla riva di una palude dove abita con lui in una capanna. La scena è stata girata com’è noto nella palude di Grado, dove la vegetazione palustre, erba e canne, e la commistione di acqua e terra interessavano Pasolini per suggerire questo momento aurorale del mondo o della conoscenza umana del mondo. Il paesaggio, quindi, è qui fondamentale per delineare l’ambiente in cui si svolgono questi discorsi: un luogo sacro, dove sono da poco scomparsi gli dèi e gli stadi dell’educazione di Giasone illustrati dalla sequenza corrispondono non solo agli stadi vichiani della storia, ma anche alla lettura che ne hanno fatto gli antropologi. Anche il tema del centauro che educa è un classico della mitologia e del simbolismo funerario; basti pensare ad Achille educato dal centauro Chirone, che si trova spesso scolpito anche nei colombari romani e greci. Il mito del centauro esprime la nascita della cultura e l’iniziazione su due piani, Chirone insegna ad Achille la musica, lo vediamo sempre con la lira in mano, mentre si rivolge al ragazzo e la lira, strumento di Orfeo, è simbolo non solo dell’educazione in generale, che gli permette di entrare nel consorzio umano, ma anche dell’iniziazione ai misteri orfico-dionisiaci, che sollevano l’uomo al di sopra delle pene e delle sofferenze umane in generale.
Nei discorsi del centauro, scritti da Pasolini sulla traccia antropologica di Lévy-Bruhl, sono riassunti sotto forma di sviluppo filogenetico, dell’uomo individuale, i vari momenti di uno sviluppo ontogenetico della cultura. Fra questi discorsi troviamo un’affermazione che a prima vista potrebbe apparire sconcertante, se non addirittura inconsulta: il centauro che educa Giasone gli dice: «Solo chi è realistico è mitico e solo chi è mitico è realistico». Che cosa significa questa dichiarazione che per noi, abituati alla distinzione fra realtà e mito come entità oppone e radicalmente contrastanti, suona per lo meno insolita? Si tratta della solita sineciosi, tanto cara a Pasolini poeta, come dichiarava lui stesso? Forse c’è qualche cosa di più, e del resto ogni contraddizione non è che una condensazione di un lungo percorso riflessivo, come insegna Platone nel Parmenide. Infatti, in altre pagine di Pasolini abbiamo modo di constatare la sua visione profondamente moderna del tragico e l’idea ricorrente della persistenza del sacro nel mondo moderno:
Il tragico segna la rottura della continuità morale del progresso e della produzione, decretando l’irrompere del sacro nella vita quotidiana[1].
Pasolini, come si vede, definisce il tragico non sotto un profilo storico o letterario o storico-letterario, ma a partire dal presente vissuto, dalla modernità, dall’etica borghese della società industriale e produttiva. E stabilisce una connessione fra il tragico e il mito con la mediazione del sacro. Il mondo intero viene definito “sacro” in Medea. Il sacro, infatti, invece di essere confinato nella sfera che da tempo lo comprende, viene nuovamente immesso da Pasolini, come il mito, nella circolazione viva e inarrestabile del vissuto, della percezione, nel mondo sensibile. Pasolini dice di avere provato spesso uno «stato di fascinazione davanti a un oggetto, una cosa, un viso, uno sguardo, un paesaggio, come se si trattasse di un congegno in cui stesse per esplodere il sacro»[2].
A partire da questa identità o, meglio, compenetrazione fra il reale, il mito e il sacro, si può chiarire anche un’altra analogia, quella fra cinema e realtà, che Pasolini propone con molta sicurezza nell’articolo La lingua scritta della realtà.
Il cinema è la scrittura dei gesti, delle cose, ogni cosa, compreso il mito, è «parola». Per Pasolini, dunque, cinema, realtà e mito sono entità analoghe, che s’illuminano vicendevolmente. Non si può parlare dell’una senza l’altra, non si può lavorare sull’una senza l’altra. In questa prospettiva il lavoro compiuto da Pasolini sui miti della Grecia classica, su Edipo e Giasone in particolare, ci permetterà anche di comprendere meglio anche la sua concezione del cinema, e viceversa, la sua concezione del cinema ci permetterà di intendere il suo lavoro sul mito.
Partiamo allora dalle osservazioni di Pasolini sulla doppia natura del linguaggio cinematografico, «estremamente soggettivo ed estremamente oggettivo». «La lingua del cinema – dice Pasolini – potrebbe essere considerata una lingua della prosa narrativa», ma, come precisa subito dopo, si tratta di «una prosa particolare, surrettizia», poiché «manca di un elemento sostanziale della lingua della prosa: la razionalità». Infatti, «l’elemento fondamentalmente irrazionalistico del cinema è ineliminabile». Il fondamento di ogni film è «quel sotto-film mitico e infantile che, per la natura stessa del cinema, scorre sotto ogni film commerciale anche non indegno, cioè abbastanza adulto civicamente ed esteticamente»[3]. In ogni film, quindi, ci sono due film, secondo Pasolini: uno è «il film che si vede e si percepisce normalmente», l’altro è un film «totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico».
Veniamo ora al mito. Pasolini non interpreta il mito addomesticandolo, alla maniera degli strutturalisti, come Vernant per esempio, con i quali a lungo si è creduto che avesse molti atteggiamenti in comune, e neppure in senso psicoanalitico, leggendo in esso una metafora dello sviluppo dell’individuo, ontogenesi e filogenesi comparate, ma lo legge sulla scorta degli antropologi cari a Cesare Pavese come un momento illuminante oppure, che è la stessa cosa, un momento oscuro della vita di ciascun essere umano; dall’uomo primitivo all’uomo contemporaneo, il mito è quel nucleo di vissuto intenso primitivo, infantile che determina a priori ogni modello di rappresentazione e di rapporto con la vita intera.
Per Pasolini il mito non è uno strumento per interpretare l’esperienza alla maniera degli psicoanalisti, non è una metafora, né un’interpretazione della natura ma, al contrario, è un momento di oscurità dell’esperienza, in cui si coglie tutta l’ambiguità, l’ininterpretabilità che caratterizza l’esperienza stessa. Come Hillman che, nel suo famoso saggio su Pan, vede nel misterioso dio greco una forza dirompente e sconvolgente che abita ancora i nostri sogni[4], anche Pasolini vede nel mito una forza oscura della nostra percezione, un momento della conoscenza in cui il mondo sta cambiando davanti ai nostri stessi occhi o, meglio, sono i nostri occhi che si aprono alla percezione di nuove forme, si spezzano gli stereotipi della rappresentazione tradizionale, codificata, e si apre alla nostra visione un nuovo aspetto della realtà circostante, della natura e del mondo visibile. Un aspetto sconosciuto, misterioso e crudele, ma anche santo e sublime, in cui l’uomo è una creatura fra le altre. Il mondo è sacro e profano nello stesso tempo.
Il mito del centauro educatore in Medea mostra questa doppia valenza. Il centauro insegna dapprima a Giasone a vedere dovunque traccia della presenza divina: nell’acqua come nel cielo, come negli alberi e nella terra; ma in un secondo momento, quando il fanciullo è cresciuto e diventato uomo, ammette che questa esperienza del divino si è dissolta e che davanti a lui non c’è più nessuno dio e rimane semplicemente una serie di oggetti: acqua, aria, terra, alberi.
Così come ci sono due mondi, ci sono anche due sguardi, diue differenti forme del sapere.
Negli occhi affascinati e allucinati di Medea, regina della Colchide, specialmente durante la scena del sacrificio umano, noi vediamo la traccia di uno sguardo differente, uno sguardo colmo, invaso dall’assoluto, che vede e percepisce ancora il divino, la crudeltà, il mistero delle cose. Come una figura delle metopi di Selinunte, come una mater Matuta, Medea è sacerdotessa demetrica che rappresenta il mondo matriarcale e il culto della terra, con la celebrazione di riti sacrificali che collegano il mondo umano con quello divino, con le divinità telluriche che occorre propiziarsi mediante l’offerta di vita: la Grande Madre mediterranea, la terra, darà all’uomo un nuovo ciclo, una nuova stagione di frutti solo dopo il sacrificio di sangue, e il sangue della vittima sacrificale viene infatti offerto alla terra, spruzzato sulle zolle e sulle piante. Nello sguardo di Giasone, invece, uomo della civilizzazione apollinea rappresentata nella Polis – a rappresentazione della quale Pasolini ha scelto le mura del Campo dei Miracoli di Pisa – c’è la ragione che ha eliminato le paure infantili e i culti delle divinità arcaiche e sanguinarie, ha instaurato il sapere dell’utilità, della funzionalità, quel regno ideale dei fini, che porta al logocentrismo e al dominio della tecnica.
Questo sguardo duplice – sguardo mitico e sguardo storico – attraversa tutto il film e produce una doppia struttura della rappresentazione: una in cui il mito è un rito di fondazione della civiltà occidentale, e come tale è razionale, logico, strutturale; e l’altra per cui il mito è una zona d’ombra, una macchia che inquina le acque limpide della conoscenza razionale, che si rivela irriducibile alla pura e semplice funzione linguistica, che appare come un buco del linguaggio e della rappresentazione, una effrazione dietro la quale si prepara una nuova e paurosa apparizione: la visione di un aspetto sconosciuto dell’esperienza. Questi due sguardi, come vedremo, però non sono successivi storici, cronologici, o meglio, non sono soltanto storici, ma sono anche sincronici, simultanei, perché l’istaurazione del nuovo regime di razionalità e di cultura apollinea non elimina il precedente mondo tenebroso ricacciandolo nel passato da cui non può più ritornare, ma semplicemente lo relega in uno strato inferiore dell’animo umano, al di sotto della coscienza, è come un uomo rimosso sottostante ma ancora operativo, che manda messaggi all’uomo razionalista sovrastante. I due mondi infatti coesistono nell’uomo moderno come il bambino e l’adulto coesistono nell’adulto.
D’altra parte, anche la duplice natura del linguaggio cinematografico, di cui parlavo, è simile alla doppia natura dello sguardo umano: da una parte infatti vediamo alla maniera del fanciullino pascoliano, che Pasolini ben conosceva fin dalla sua tesi di laurea, e cogliamo tutto il mistero vivente della natura, l’enigma delle cose e degli eventi; dall’altra parte vediamo con l’occhio degli adulti, il cui vedere è anche un sapere, è anzi determinato dal sapere che tende come fine al sapere stesso, uno sguardo che non si apre più al mistero delle cose, ma che organizza il mondo, lo strutture, lo usa, lo riduce a strumento. In questo passaggio il mondo perde il suo carattere misterioso e pauroso, ma perde anche il suo incanto, la potenza generativa e fascinatrice, come il mondo dell’adulto, rispetto al mondo del fanciullo, è privo di fantasmi ma anche di fascino.
Consideriamo ora le sequenze iniziali del film. I titoli di testa passano sulla visione di una landa deserta, che però è coperta quasi completamente da un effetto di luce: il riflesso del sole al tramonto sull’obiettivo. Il controluce nel cinema di Pasolini è spesso, se non sempre, una manifestazione del divino: la luce che abbaglia, che impedisce di vedere. Ed è nello stesso tempo una manifestazione del cinema, un segno di presenza della cinepresa, un effetto straniante e riflessivo, che ci induce a pensare al nostro stesso sguardo, disturbandolo, confondendolo. I due effetti, anche se potrebbero sembrare contrapposti, non lo sono affatto: il sacro, come si è detto, è un’istanza superiore misteriosa, che induce a pensare alla totalità, ma è anche nell’opera d’arte un’istanza riflessiva che spinge, esorta il soggetto a uscire dalla rappresentazione, a fare un passo indietro per vedere se stesso, verso quel nucleo di realtà residua nel regno delle immagini che è lo spettatore stesso. Il sacro è quindi manifestazione del divino ma anche del cinema stesso, dello spettatore che ricupera la piena coscienza del proprio essere. Quando Edipo, nel film omonimo, incontra Laio sul suo cammino di ritorno dall’oracolo di Delfo, senza sapere che si tratta di suo padre, una luce lo abbaglia ed è costretto a ripararsi con la mano. Anche noi siamo disturbati nelle soggettive che accompagnano il duello, dal controluce, che è metaforica cecità ma anche rivelazione della nostra esperienza, del nostro guardare e dei limiti di questo sguardo. In Medea il controluce, posto come premessa a tutto il film, diventa metafora della scrittura filmica stessa, diventa l’opacità fondamentale del mito e del film, che intende restituirci la parte più concreta di noi stessi, il nostro guardare, la nostra esistenza fisica di spettatori in carne e ossa. La terra fa da riscontro a questa istanza metalinguistica, vediamo abbagliati, con difficoltà, un deserto, ovvero un luogo che non è neppure luogo, che è l’essenza nuda del luogo, la materia del pianeta, la terra e niente altro.
L’educazione di Giasone si svolge in cinque discorsi del centauro, collegati in sequenza, discorsi che hanno fra loro un rapporto contraddittorio, e che segnano il passaggio fra le varie fasi, i i vari aspetti del mito e dal mito alla scienza. La contrapposizione instaurata da Pasolini è infattio questa: fra mondo del mito e della realtà da una parte e mondo della ragione e dei fini dall’altra c’è un abisso, eppure i due mondi coesistono, anzi, sono uno stesso mondo.
1) Il primo discorso del centauro corrisponde alla mitologia antica: la genealogia, genealogia che con voce naturalmente fino al piccolo Giasone, bimbo seduto in terra, sulla soglia della capanna; i raggi del sole cadente, entrando, disegnano un grande rettangolo sul pavimento. Il centauro recita nomi su nomi: sentiamo parlare di un caprone parlante, udiamo i nomi di Ermete, Nefele, Ino, Cadmo, Atamente, Eolo e molti altri. Giasone, dolcemente cullato, si addormenta nel rettangolo di sole. La prima funzione del mito è quella genealogica, un elenco di nomi che conduce fino al soggetto, dandogli così delle radici, lo radica nel mondo in cui si trova, gli spiega che non è caduto là per caso, che non è stato “gettato” dentro il mondo come vuole la filosofia moderna che ha abbandonato ogni metafisica, ma che al contrario, ha una bella serie di antenati che lo giustifica e lo autorizza a essere dov’è. Questa funzione rassicurante e questa elencazione ipnotica fanno addormentare il bimbo in piena tranquillità e sicurezza sul confine fra l’esterno e l’interno, dentro e fuori dal mondo.
2) Il secondo discorso del centauro a una maggiore complessità. Giasone è un bambino, in grado di seguire ormai una storia. Seduto sul dorso del centauro, non più dentro la capanna, ma fuori, sulla riva del mare, di fronte al mondo di cui deve appropriarsi, Giasone ascolta la storia dei discendenti di Eolo: «Hai Capito?» – gli dice alla fine il centauro – «E’ una storia un po’ complicata, perché è fatta di cose, non di pensieri».
Incontriamo qui il primo scoglio. La complicazione, la difficoltà non sta nel pensiero, per Pasolini, sta nelle cose concrete; parafrasando il messaggio di Carlo Diano, Forma ed evento, che propone alcuni principi molto interessanti per una interpretazione del mondo antico, potremmo dire che la difficoltà sta nella forma, non nel concetto, che è lontano ma “chiaro e distinto”, cartesianamente, ma nell’evento fisico, materiale che è proteico, nella realtà che è lì ma è inafferrabile[5].
3) Solo nel terzo discorso a fare il tema del sacro. La sacralità del mondo quindi non è la prima cosa che appaia all’uomo, ma rappresenta già un certo stadio di evoluzione e di maturità, una prima forma di consapevolezza e di coscienza del mondo. «Tutto è santo. Tutto è santo. Tutto è santo», recita per tre volte il centauro. Se ricordiamo il discorso di Francesco nel film di Rossellini, la corrispondenza è stupefacente, e ci fa comprendere che si trattanon solo di un omaggio al maestro ma, come dire, di una vera e propria teorizzazione di quello che Rossellini aveva espresso in maniera piuttosto intuitiva e immaginifica. Ma, dopo questa criptocitazione, forse addirittura involontaria, dato che Pasolini qui non ha certo sposato il cristianesimo rosselliniano, ma ne ha sviluppato la religiosità primordiale latente, l’ha assimilata e assorbita dentro un contesto pre-cristiano, dentro una religione primordiale, il centauro, portatore non di una ma di molte culture, prosegue:
Non c’è niente di male nella natura, ragazzo mio, tienitelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito e comincerà qualcos’altro. Addio cielo. Addio mare. Che bel cielo! Vicino, felice! Di’ ti sembra che un pezzetto solo sia innaturale? E non sia posseduto da un dio? Eh? … E così è il mare, in questo giorno in cui tu hai tredici anni e peschi con i piedi nell’acqua tiepida. Guardati alle spalle. Che cosa vedi? Forse qualcosa di naturale? No. E’ un’apparizione quella che tu vedi alle tue spalle, con le nuvole che si specchiano nell’acqua ferma e pesante delle tre del pomeriggio. Guarda laggiù quella striscia nera sul mare lucido e rosa come l’olio. Quelle ombre di alberi e quei canneti. Eh…? In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un dio. E se per caso non c’è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra: O silenzio, o odore di erba, o fresco di acque dolci. Eh, si, tutto è santo! Ma la santità è insieme una maledizione. Gli dei che amano, nello stesso tempo odiano.
Molte cose si potrebbero dire a commento di queste righe, ma mi preme sottolineare una parola. Apparizione. Il mito ha qui la sua essenza, in questa rivelazione del dio nascosto nelle cose. Se per Pavese il sacro era la parte profonda, indistinta, il magma generativo della nostra psiche, quello che Goethe aveva chiamato l’Urphänomen, il fenomeno originante, per Pasolini il sacro e gli dei sono il lato oscuro del mondo visibile, o, come direbbe Orson Welles, regista caro a Pasolini, in un suo film che non andò molto oltre il suo magnifico titolo, sono L’altra faccia del vento. Ogni elemento della natura è soprannaturale, è manifestazione del dio.
Il mito spezza gli stereotipi della percezione, apre avanti a noi il grande sipario della natura e ci insegna a vedere. E il cinema?
Il cinema, che per Pasolini, abbiamo detto, è “estremamente soggettivo ed estremamente oggettivo”, apre ancora una volta davanti a noi questo sipario, come già aveva fatto il mito, rompe i codici della percezione finalizzata, funzionale, utilitaristica, rompe i concetti e ci permette di intravedere il mondo nella sua forma fluida. Il cinema apre le finestre dei sensi, in questo senso è realistico.
4) Il quarto discorso del centauro segna il primo distacco da questa unità con il tutto.
La religiosità primitiva di Rossellini ci appare ora distante innumerevoli anni luce, non è altro che la manifestazione di un sentimento profondo del sacro che caratterizza l’uomo primitivo davanti al mondo. Questo corrisponde anche al momento in cui il mito appare ormai come lontana favola poetica e il rimando questa volta è a Vico. È il momento vichiano dell’interpretazione dei grandi miti e dei poeti antichi. Giasone ragazzo è di nuovo seduto sulla soglia di casa, fra due mondi. Il sole disegna di nuovo un rettangolo sul pavimento:
Forse mi hai trovato, oltre che bugiardo, anche troppo poetico – inizia il centauro – Ma che vuoi, per l’uomo antico i miti e i rituali sono esperienze concrete che lo comprendono anche nel suo esistere corporale e quotidiano. Per lui la realtà è una unità talmente perfetta che l’emozione che egli prova, diciamo, di fronte al silenzio di un cielo d’estate equivale in tutto alla più interiore esperienza personale di un uomo moderno.
L’uomo arcaico sta dentro il mito così come sta dentro il mondo. Il mito è la sua verità e la sua realtà. La visione e l’esperienza interiore sono la stessa cosa. L’esterno e l’interno, appunto, coincidono. Il mito è il mondo interno dell’esterno dell’interno[6].
5) Il quinto discorso del centauro pone Giasone davanti alla frattura completa fra conoscenza e mito, fra ragione e mondo, fra il mondo dei fini (il compito di Giasone, la conquista del vello d’oro, il dovere che è connesso alla fondazione della Polis) e il mondo senza fini e senza senso, precategoriale, aperto, il regno primordiale delle madri. Il viaggio di Giasone come lo descriverà il centauro ha tutte le caratteristiche di un goethiano viaggio delle madri, negli «aperti reami delle forme disciolte» (In der Gebilde losgebundne Reiche, dice Mefistofele[7]: «Non c’è luogo intorno ad esse e meno ancora tempo»[8].
Dice infatti il centauro di Pasolini, distinguendo chiaramente i due mondi:
Tu andrai da tuo zio, il padrone del tuo regno, a reclamare i tuoi diritti, ed egli per eliminarti avrà bisogno di qualche pretesto, ti manderà a compiere qualche impresa. Così te ne andrai in un paese lontano, al di là del mare. Qui farai esperienza di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione. La sua vita è molto realistica, come vedrai, perché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico. Questo è almeno ciò che prevede questa nostra divina ragione. Ciò che non può prevedere, disgraziatamente, sono gli errori a cui ti condurrà, e chissà quanti saranno. Ciò che l’uomo, scoprendo l’agricoltura, ha veduto nei cereali, ciò che ha imparato da questo rapporto, ciò che ha inteso dall’esempio dei semi, che prendono la loro forma sotto terra per poi rinascere, tutto questo ha rappresentato la lezione definitiva, la resurrezione, mio caro. Ma ora questa lezione definitiva non serve più. Ciò che tu vedi nei cereali, ciò che intendi del rinascere dei semi è per te ormai senza nessun significato: come un lontano ricordo che non ti riguarda più. Infatti non c’è nessun dio.
Siamo così giunti alla negazione dell’assunto iniziale: Tutto è santo / Non c’è nessun dio.
Sono le due facce dell’uomo antico e moderno che, come spiegherà più tardi il centauro in una successiva ultima apparizione, convivono insieme nell’uomo moderno. L’educazione di Giasone è completa. Ora Giasone può partire e cominciare il suo viaggio. Uno stacco sulle pecore e sui pastori del mondo mitico segna improvviso il passaggio, aprendo la sequenza del sacrificio umano. Il viaggio di Giasone non è ancora iniziato, ma il viaggio del cinema sì.
La sequenza del sacrificio umano segna lo sforzo più intenso e maggiore di Pasolini di compiere, con l’occhio del cinema, uno spaesamento, un viaggio nel passato, pur rimanendo dentro il presente: il tentativo di guardare con un occhio spalancato sul mondo, un occhio che non appartiene più all’uomo moderno, ma tanto meno appartiene al primitivo.
Lo stile, infatti, potrebbe essere scambiato per quello di un documentario antropologico. Un atteggiamento di osservazione sul posto con macchina a mano e movimenti rapidi, bruschi, come a cogliere un evento che si svolge nel momento stesso in cui viene ripreso. Ma non c’è del documentario l’immediatezza e la qualità delle immagini, l’istante qualunque della vita quotidiana filmata alla sprovvista. Viceversa, paradossalmente, per caratterizzare questo mondo mitico, Pasolini fa ricorso, ancora una volta, alla pittura, a quella pittura che maggiormente lo interessava, quella medievale in cui il senso del sacro è ancora forte e intenso, quindi vicino a quello che poteva essere l’occhio dell’uomo arcaico.
Così, la Cappadocia con le sue vedute desuete, le montagne lisce e traforate, le grotte che si aprono a centinaia come occhi naturali, o come buchi neri nei quali affonda lo sguardo, è una zona particolarmente adatta a rappresentare un non-luogo o tutti i luoghi: continuamente sfuggente, mutevole e proteica. È un universo umano e non umano, abitato e deserto, vivo e morto. Il paesaggio non è paesaggio, ma una bizzarria della natura, un cumulo di stravaganze senza nessuna direzione. È solo materia visiva, ancora in attesa di assumere uno statuto paesaggistico.
Il riferimento pittorico va chiaramente a Giotto, ai suoi paesaggi dipinti con scabre pennellate di colore, alle montagne che non sono montagne, ma riccioli, cocuzzoli, bizzarri ricami che s’incapricciano in uno scenario piatto, senza profondità. Come le montagne di Giotto sono solo pennellate di colore, così Pasolini ha trovato nella Cappadocia montagne che sono solo spruzzi di terra e la fotografia di Ennio Guarnieri, con la piattezza del teleobiettivo, con le sfumature rosa che riesce a dare alle rocce perfeziona questa analogia.
Siamo ancora una volta davanti a un dipinto, non alla natura, ma alla natura come l’immaginava l’uomo di molti secoli fa, una natura divina, simbolica, abitata dagli dèi e dai santi. Pasolini fa della natura un affresco, una natura interiore, una tela dipinta. Come i paesaggi di Giotto sono completamente astratti, interiori, privi di aspirazione naturalistica, perché sono abitazioni di Dio, così, anche gli scenari, i luoghi del mito per Pasolini sono giotteschi in quanto, come dice il centauro, sono luoghi dell’assoluto, luoghi dell’anima.
Un campo di grano, un albero, una landa di terra quindi non sono ancora grano, albero, terra in senso scientifico, dei composti organici ma sono, il grano, l’albero, la terra indicando nell’articolo il carattere assoluto di puri e semplici nomi che hanno le cose mitiche.
Lunghe inquadrature fisse anticipano la scena del sacrificio: un mondo sospeso, un mondo in attesa, epifanie, apparizioni: ragazzi che suonano, che dormono, volti, di uomini e di animali. In seguito, lunghe panoramiche e macchina a mano connotano la scelta del sacrificio umano.
Il tentativo di Pasolini non è quello di raggiungere uno sguardo primitivo, cosa che egli sa bene essere impossibile (basta pensare al suo discorso sulla «soggettiva libera indiretta») ma piuttosto di darci solo un’apertura sulla possibile esistenza di un mondo o di altri mondi dietro o dentro il mondo che noi vediamo.
Veniamo ora alla lettura del mito di Giasone, al seconda parte del film, quella tratta propriamente dalle pagine di Eschilo. Giasone annuncia che sposerà la figlia del re Creonte. Questi caccia Medea dalla città; lei decide di vendicarsi e fa indossare le sue vesti di maga alla figlia del re, che si getta impazzita dalla torre, poi uccide i figli suoi e di Giasone e incendia la casa. Ma per Pasolini, quello che conta maggiormente è l’impresa degli argonauti, che segna un fondamentale passaggio fra due mondi, la svolta fra mondo licio-demetrico, dove vige invece la legge sanguinaria del Génos e mondo ellenico-patriarcale, dove vige invece la legge democratica apollinea, il passaggio da Astrale ad Apollo, dalla cultura agricola e tribale a quella del commercio e della Polis.
Siamo di fronte a un mito che racconta la fine del mondo mitico, quindi. Giasone infatti si muove fra due mondi, come abbiamo appreso dalle parole del centauro, quello primitivoarcaico e quello storico della polis; da una parte lo scenario primordiale, solare e abbagliante della Cappadocia giottesta; dall’altra lo scenario classico, a rappresentazione della quale Pasolini ha scelto i candidi marmi della cattedrale di Pisa e del Campo dei Miracoli. Giasone come abbiamo visto anche nel profugo, fin da bambino è un abitatore delle soglie; questo è caratteristico di ogni eroe del mito, di ogni fondatore: si addormenta sulla soglia di casa, vive sulla riva del mare, e nella sua impresa passa dal mito alla storia o, più semplicemente, più banalmente, dall’infanzia alla vita adulta. Si muove sulla linea di confine fra questi due universi che, come dirà poi il centauro nella sua ultima apparizione davanti alle mura della cattedrale di Pisa, non sono successivi, ma coesistono dentro l’uomo.
NOTE
[1] P.P.Pasolini, Il sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti 1983, p.105.
[2] P.P.Pasolini, Il sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti 1983, p.105.
[3] P.P.Pasolini, Il cinema di poesia, in Empirismo eretico, Milano, Garzanti 1972, p.172 sgg.
[4] J. Hillman, Saggio su Pan, Milano, Adelphi 1977.
[5] C.Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, Venezia, Marsilio 1993.
[6] Prendo a prestito questa espressione da un noto titolo di Peter Handke: Il mondo interno dell’esternodell’interno.
[7] W. Goethe, Faust, II v.6277.
[8] Ivi, II, v.6214.
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