Metafora e Simbolo Riflessioni su L’assassinio di un ranuncolo di Alfred Döblin
Di Giuseppina Pagliafora
“L’amore ha l’odore della morte”.
(Georges Bataille)
“La forma più bassa del sopravvivere consiste nell’uccidere”.
(Elias Canetti)
Intitolando il suo racconto giovanile L’assassinio di un ranuncolo (1913), titolo che darà il nome all’intera raccolta di complessivi dodici racconti, Döblin non nasconde nulla del futuro svolgersi dell’azione: l’uccisione di un fiore, un ranuncolo appunto. Se ci soffermiamo ancora sul titolo, la cosa che colpisce maggiormente la nostra attenzione e che appare subito chiara è che un comune ranuncolo venga elevato alla dignità di persona; l’assassinio, termine che in genere indica un’azione delittuosa che uomini perpetrano contro altri uomini, viene qui riferito ad un fiore, un essere che per definizione comune non può difendersi né possiede la facoltà di comprendere ed elaborare ciò che accade intorno a sé. Individuare le ragioni da parte di Döblin di una tale scelta vuol dire non solo tener in debito conto quel gusto espressionistico «per la presa di posizione rabbiosamente decisa in ambito formale e contenutistico, per l’impulso ad un’espressione intensa e interrotta»[1] presente in alcune delle sue opere giovanili ma riconoscere quel « Döblinismo»[2] di cui l’autore fu sempre conscio e arduo sostenitore, la sua particolare posizione di intellettuale dal Doppelleben[3], dalla doppia vita di medico e scrittore[4].
Lo psichiatra e l’autore, «la casuale omonimia»[5], così Döblin definisce il suo altro, i due aspetti della propria personalità in una scherzosa, ma assai significativa, analisi ora contenuta negli Scritti Berlinesi, vanno di pari passo nella maturazione artistica del giovane Döblin, sono uno completamento dell’altro pur movendosi entrambi in un’unica direzione: la curiosità intellettuale, sia essa letta dal punto di vista medico-scientifico che artistico-letterario. In una retrospettiva autobiografica, l’autore rivela di avere studiato medicina per amore della verità o, come fa notare Renzi, lo studio della medicina voleva essere l’antidoto per arginare e sostenere l’ardore di conoscenza di uno scrittore in erba che si interrogava sui «temi della filosofia naturale, del panteismo mistico e del monismo filosofico»[6]. Ed è appunto in questo interesse giovanile di natura più filosofica che letteraria, nella ricerca di una risposta sia essa personale che universale alla domanda esistenziale sul significato dell’esserci al mondo, che va ricercato il nocciolo tematico del racconto L’assassinio di un Ranuncolo, da intendere come sostrato delle questioni su cui si interrogherà a distanza di anni nell’opera Das Ich über di Natur (1927) e nella raccolta di saggi Unser Dasein (1933), l’ultimo scritto pubblicato dall’autore in Germania prima della dolorosa emigrazione in Francia e successivamente negli Stati Uniti.
Comune a questi e ad altri scritti, composti nel periodo che va all’incirca dal 1915 al 1933, fase che Renzi definisce come quella di una «mistica senza Dio», è l’interesse per la natura, intesa come misteriosa forza autoregolatrice, totalità dei fenomeni della vita, palcoscenico su cui si svolgono le attività di tutto quanto è animato, e l’interrogazione sul rapporto Io-Natura; da queste riflessioni si evince come la Natura nella sua animazione (Beseeltheit) e costante trasformazione (Umformung) «che giunge fino al cosiddetto inorganico» inghiottisca l’uomo, «il suo Io unico e personale»[7]. L’autore appare ancora legato ad una visione romanticheggiante della natura, di stampo schellinghiano, dunque, che appare come elemento vivo, dotata di senso proprio come l’essere umano, affine eppure contrario, opposto all’Io. Scrive ancora Döblin: «L’uomo è parte e controparte della natura […]ma non la morale rende l’Io o l’esperienza vissuta un opposto della natura, piuttosto il pensare, il sentire, il percepire, il volere»[8]. L’uomo e la natura costituiscono quindi un’unità, anche se si oppongono, e ciò che rende l’individuo diverso dal mondo vegetale, anche se non migliore, è la facoltà di pensiero e volontà.
Cosa accade dunque nel racconto? Un uomo passeggia immerso nel gioco ossessivo del contare i proprio passi «uno, due, tre, fino a cento»[9] lungo un sentiero quando, «sentendosi trattenuto per il braccio»[10] dalle «rade erbacce»[11] che apparentemente indifese giacciono lungo il ciglio della strada, inizia a colpirle col proprio bastone da passeggio colto da un inspiegabile raptus. Dopodiché, mentre di nuovo calmo è intento a contare nuovamente i propri passi, si avvede di aver reciso di netto la testa di un fiore, un ranuncolo. Perché la sua attenzione viene colpita proprio da quel fiore? Cosa rappresenta l’incontro di un essere dotato di ragione, capace di sentire e percepire, con quel singolo fiore, quella natura che pur animata giace inerme senza profferire parola? Quel gesto causa nel signor Michael Fischer, «il signore dall’abito nero»[12] una serie di reazioni, risveglia in lui sentimenti mai provati prima, dà voce ad una sofferenza che potremmo definire esistenziale, proprio perché quell’azione viene investita di una valenza simbolica, rispetto alla quale talvolta “barcolla” e “dimentica”. Quel gesto, apparentemente banale, è in realtà qualcosa di molto più pericoloso per il nostro personaggio, è la scintilla da cui nasce il fuoco della conoscenza, è una metafora per l’incontro del signor Fischer con qualcosa di insondabile, di misterioso. Come spiega Camporesi, infatti, «le erbe, i fiori, gli alberi hanno tappezzato le immaginazioni e i deliri degli uomini che ne hanno interpretato simbolicamente le loro silenziose, discrete esistenze»[13].
L’uomo vestito di nero viene attirato da un unico fiore, non la morte degli altri fiori lo interessa ma quella del ranuncolo che solo tra gli altri cattura il suo interesse. Döblin evidenza questo incontro/scontro tra il «grassone»[14] e il fiore creando una prima scissione all’interno del personaggio che prende coscienza di ciò che è accaduto rivivendolo come in un sogno, com’è sottolineato dal bisogno di riacquistare fiducia in se stesso: «si ripeteva fino allo spasimo che doveva essere stato tutto un sogno»[15], sogno ad occhi aperti, certo, ma pur sempre visione dai tratti marcatamente onirici[16].
Improvvisamente […] il signor Michael Fischer vide una figura tarchiata, se stesso, indietreggiare dal prato, avventarsi sui fiori e troncare di netto la testa di un ranuncolo. Davanti a lui si svolse, reale e tangibile, la scena che era accaduta dianzi sul viale oscuro. Questo fiore era identico e preciso agli altri. Ma esso solo attirava il suo sguardo[17].
Pur nella generale drammaticità dell’avvenimento, il riconoscimento di una morte, l’incontro tra l’uomo e il fiore ha i tratti dell’innamoramento, una folgorazione che passa attraverso lo sguardo e arriva al corpo «il cuore del commerciante si mise a battere all’impazzata»[18]. Come chiarisce Bataille,
ciò che colpisce gli occhi umani non determina soltanto la conoscenza delle relazioni fra i diversi oggetti, ma anche uno stato di spirito decisivo e inspiegabile. È così che la vista di un fiore denuncia, è vero, la presenza di questa parte definita di una pianta; ma è impossibile fermarsi a questo risultato superficiale: in effetti, la vista del fiore provoca nello spirito reazioni molto più conseguenti con il fatto che esso esprime un’oscura decisione della natura vegetale[19].
Nello spirito, suggerisce Bataille, ma anche nel corpo diremmo noi, così come puramente corporea, fisica è la reazione al pensiero che la «testa imputridisce nell’erba […] Il signore, d’animo sensibile trasalì. Sentiva in bocca un sapore di disgusto. Non poteva deglutire dalla nausea»[20].
Dicevamo prima che il “mistico” Döblin si è avvicinato dapprima alla Naturphilosophie di stampo romantico e proprio uno dei maggiori rappresentanti del protoromanticismo, Novalis, ci offre lo spunto per un parallelismo con l’autore berlinese; nell’Heinrich von Ofterdingen, nel primo capitolo, viene descritto il sogno del giovane trovatore medievale nel quale, dopo essersi inoltrato in una fitta boscaglia che conduce ad una caverna, ha luogo il tanto agognato incontro con il fiore azzurro. Si legge nel romanzo:
Ciò che però lo attrasse fortemente fu un fiore alto d’un azzurro luminoso, che prima stava sulla sorgente, e che lo toccò con le sue ampie foglie rilucenti. In cerchio intorno ad esso c’erano innumerevoli fiori di ogni colore, e il profumo più squisito riempiva l’aria. Non vedeva che il fiore azzurro […] alla fine volle avvicinarglisi, ma improvvisamente questo iniziò a muoversi e a trasformarsi; le foglie si fecero più scintillanti e si piegarono sullo stelo che cresceva, il fiore si chinò verso di lui e i petali mostrarono un’ampia corolla azzurra in cui fluttuava un tenero viso[21].
Il trovatore medievale Heinrich si imbatte per la prima volta nel fiore azzurro in sogno, un sogno che egli al risveglio definisce come «leggiadro» per la sensazione di benessere che questa visione suscita, ma anche «qualcosa di più di un sogno»[22]. Sia nella Ermordung einer Butterblume che nell’Heinrich von Ofterdingen, la visione del fiore è caratterizzata da una dimensione “altra” rispetto a quella realmente vissuta: sogno, che si trasformerà in realtà, nell’Ofterdingen e visione dalle sembianze segnatamente oniriche, sogno in pieno giorno, per Michael Fischer. Ma ciò che differenzia i due passi citati è la posizione che il fiore assume nei confronti del proprio “interlocutore”; in Novalis, la blaue Blume si caratterizza e si differenzia dagli altri che lo circondano per la sua altezza e per la sua luce; inoltre ciò che maggiormente lo distingue dagli altri fiori è la sua volontà di azione, la sua forza seduttrice: Heinrich si sente attratto dal fiore perché questi lo avvicina, è il fiore a chinarsi verso di lui e mostrare così il proprio segreto di fiore dal volto di donna.
Nella Ermordung einer Butterblume tutto ciò non accade. Il fiore è, e resta, immobile, passivo, come chiarisce Christine Kanz che riconduce la fissità del ranuncolo, cui si oppone l’azione violenta (ovvero il movimento) del protagonista, designato dall’autrice come Geschwindigkeit, velocità, alla codifica dell’obsoleto cliché uomo-azione-coraggio/donna-immobilità-paura. Ma se il ranuncolo corrisponde in pieno alla percezione che per secoli l’immaginario collettivo ha avuto della donna, il signor Fischer, tradisce in più punti questo ritratto. Egli prova terrore, sgomento, inadeguatezza di fronte alla situazione che gli si presenta. Dopo la realizzazione del delitto, «egli sedeva come un idiota nella sua stanza da letto, dicendo a voce alta a se stesso: “eccomi qua, eccomi qua” e guardandosi intorno disperato»[23] il che è certamente indice di smarrimento e tradisce il desiderio di sicurezza, di ritrovare se stesso. Ne L’assassinio di un ranuncolo il signor Fischer, l’uomo vestito di nero, il grassone col «viso liscio, senza barba, il viso di un vecchio bambino, dalla dolce boccuccia»[24] rappresenta appunto quel Gegenstück della natura. Il commerciante che «soleva schiaffeggiare i suoi apprendisti quando non erano abbastanza lesti nell’acchiappare le mosche in ufficio e a presentargliele allineate in ordine di grandezza»[25], ha ormai dimenticato, a livello della coscienza, quell’unione con la natura, si è ormai perso nel contatto con una natura prorompente e fagocitante. Conscio della propria posizione sociale, nascosto sotto l’apparenza di un mondo industrializzato, logico, incanalato in un’ottica di progresso e benessere, egli porta sintomaticamente, come una uniforme e senza comprenderne il significato reale, tutti i segni che contraddistinguono un uomo della propria posizione: l’abito con la giacca, il cappello all’inglese, il bastone da passeggio, l’orologio da taschino. Solo la sua identità all’inizio del racconto appare del tutto sconosciuta, sappiamo unicamente che quest’ “ansimante”, normale uomo di mezza età, in un pomeriggio afoso percorre il sentiero che da Friburgo va verso St. Ottilien. È significativo, a questo proposito, che Döblin riveli il nome del suo protagonista solo dopo l’assassinio, atto apparentemente involontario ma pur sempre da considerare come momento culminante della sintomaticità di quest’uomo “normale”, solo dopo, dunque, che egli, come ad esorcizzare la morte, come a volerne allontanare lo spettro, si ritrova a ironizzare sulla presunta scoperta del misfatto per mezzo di un pensiero scherzoso: «assassinato un ranuncolo adulto sulla strada da Immental a Ottilien, tra le sette e le nove di sera. Si sospetta del delitto…»[26].
Dopo aver chiarito l’identità di chi effettivamente ha commesso “il crimine”, dobbiamo verificare quella dell’oggetto della morte: il ranuncolo. Appurato che il fiore, per il signor Fischer è simbolo per qualcos’altro, non rimane che visualizzarne la fisionomia, comprenderne l’identificazione. È mio parere che, un sottile filo conduttore colleghi la metafora-fiore all’universo femminile ma, a differenza di quanto affermato dalla recente critica, si possono intravedere due differenti livelli interpretativi; ovvero l’identificazione del ranuncolo con la donna corrisponderebbe non soltanto alla lotta tra sessi opposti, ma va letta come lo scontro del protagonista con il femminile in toto: femminile come donna e madre.
La donna-fiore
Dans une chambre tiède où, comme en une serre, / L’air est dangereux et fatal, / Où des bouquets mourants dans leurs cercueils de verre / Exhalent leur soupir final, / Un cadavre sans tête panche, comme un fleuve, / Sur l’oreiller désaltéré / Un sang rouge et vivant, dont la toile s’abreuve / Avec l’avidité d’un pré. / Semblable aux visions pâles qu’enfante l’ombre / Et qui nous enchaînent les yeux, / La tête, avec l’amas de sa crinière sombre / Et de ses bijoux précieux, / Sur la table de nuit, comme une renoncule, / Repose ; et, vide de pensers, / Un regard vague et blanc comme le crépuscule / S’échappe des yeux révulsés. / Sur le lit, le tronc nu sans scrupules étale / Dans le plus complet abandon / La secrète splendeur et la beauté fatale / Dont la nature lui fit don[27].
(Charles Baudelaire)
Ho voluto introdurre questo paragrafo con un frammento assai significativo di Baudelaire, perché rappresenta, a mio parere, il nodo che congiunge la metafora della donna-fiore al motivo della morte presente anche nella Ermordung einer Butterblume di Alfred Döblin. È mia intenzione, infatti, dimostrare ancora una volta come il motivo dell’assassinio riferito a un fiore costituisca una novità, una trovata narrativa originalissima nel panorama letterario tedesco. Se ci soffermiamo un momento sul poeta maledetto, possiamo considerare questa poesia come uno dei primi esempi, nella letteratura moderna, di tragica antropomorfizzazione di un fiore, ovvero in questo caso di una sostanziale identità, nella morte, tra una donna e l’oggetto fiore. Nella poesia, il senso di morte che grava nella stanza tiepida come una serra, viene accentuato dall’odore acre dei fiori in decomposizione come quel corpo decapitato con cui condividono lo stesso amaro destino. Come il tronco, strappato alla testa, reciso come un fiore, giace nello splendore naturale del corpo nudo che accentua la sua bellezza fatale, così la testa, contornata dalla chioma, da una corolla di capelli, come un ranuncolo, sembra riposare. In entrambi i casi – nella poesia di Baudelaire come nell’Assassinio di un ranuncolo – ciò che unisce i due fiori è il medesimo tragico destino: la decapitazione.
Anche il racconto di Döblin, dunque, narra di una morte, dell’uccisione di un fiore, quella Blume che in tedesco come in francese, è di genere femminile prestandosi immediatamente a interpretazioni di tipo dualistico, sul rapporto uomo/donna[28]. E appunto su questa interpretazione si sono diretti numerosi critici, tentando di ricondurre il racconto ad una lotta sessuale sia essa dal punto di vista analitico che sociale o culturale[29]. Certo, sulla questione della diade uomo – [metafora donna-fiore] viene incentrata una parte cospicua della letteratura tedesca, a partire, per accennare a qualche esempio, da Heinrich Heine, che in una breve lirica tratta dal Buch der Lieder identifica la donna amata direttamente con un fiore di cui porta i connotati di bellezza e purezza come quando scrive: «Du bist wie eine Blume / so hold und schön und rein; / Ich schau dich an, und Wehmut /Schleicht mir ins Herz hinein»[30] alla già citata blaue Blume di Novalis, visione onirica, fiore dal volto di donna, simbolo di purezza e perfezione nonché anticipazione dell’incontro futuro con l’amata. Ma mentre in questi due autori la simbologia donna-fiore o fiore-donna va letta come il risultato di una idealizzazione romantica della figura femminile considerata come qualcosa di delicato, profumato, fragile, se leggiamo Heidenröslein ispirata a Goethe da Friederike Brion, e ad essa dedicata, il richiamo alla donna come fiore si tinge di una connotazione erotico-sensuale nel momento in cui il giovane vuole cogliere la rosa e dunque spezzarne l’integrità che può essere letta qui come innocenza, verginità. «Knabe sprach: ich breche dich, /Röslein auf der Heiden! Röslein sprach: ich steche dich, /Dass du ewig denkst an mich, /Und ich will’s nicht leiden»[31].
Cosa si può dedurre dagli esempi analizzati? In tutti e tre i casi citati (Heine, Novalis, Goethe) ciò che si viene a creare è un triangolo amoroso il cui vertice è rappresentato dal fiore-donna e che funge da anello di congiunzione tra lo scrittore e la donna amata. L’ideale di bellezza incarnato dal fiore viene attribuito alla donna che si fa portatrice di quei valori notoriamente attribuiti ai fiori. Come esemplificato dalla figura sottostante, sia che si tratti di trasfigurazione che identificazione o di metafora, il rapporto amoroso è tra l’uomo–scrittore e la donna lontana, per cui la funzione del fiore è quella di rappresentare l’assenza dell’amata, assenza che si fa presenza nell’immaginario e nei ricordi del poeta.
Prendiamo adesso in esame un altro esempio per comprendere come la medesima questione amorosa incentrata sul fiore-donna, cambi radicalmente identità ed effetto. Ne L’Usignolo e la Rosa di Oscar Wilde, questo triangolo viene spezzato, creando, a livello narrativo, uno sdoppiamento del rapporto uomo-donna. L’usignolo, testimone delle lacrime del giovane studente che si dispera per non poter accompagnare al ballo l’amata se non facendole dono di una rosa, si inserisce nel triangolo amoroso uomo-fiore-donna, agendo in prima persona e, corteggiando col proprio canto un rosaio gelato dalla neve, si unisce ad esso in un amplesso brutale e mortale. Ciò che si viene a creare nel racconto sono due rapporti amorosi distinti, quello dello studente con la ragazza da un lato che non viene consumato e quello carnale dell’usignolo-uomo con la rosa-donna che si immolano in nome del vero amore.
Stringiti di più, piccolo Usignolo” gridava l’Albero, “o verrà giorno prima cha la rosa sia finita”. Così l’Usignolo si strinse più forte contro la spina, e la spina gli toccò il cuore, e una acuta fitta di sofferenza lo percorse. Amaro, amaro era il dolore e sempre più folle si fece il suo canto, poiché l’Usignolo cantava l’Amore che viene reso perfetto dalla Morte, l’Amore che non muore nella tomba[32].
La rosa diventa così simbolo reale, corporeo dell’avvenuto incontro amoroso suggellato dal sangue dell’usignolo da intendersi come supplenza del rapporto d’amore tra il giovane studente e la figlia del professore. Diremo allora con Bataille che: «è inutile trascurare, come si fa generalmente, questa inesprimibile presenza reale» del fiore in sé, «e rigettare come un’assurdità puerile certi tentativi di interpretazione simbolica». Che la rosa, a differenza del ranuncolo, emblematizzi certamente l’amore come, continua Bataille, «il narciso l’egoismo o l’assenzio l’amarezza, se ne vede fin troppo facilmente la ragione […] Per ciò che riguarda i fiori, si vede subito che il loro senso simbolico non è necessariamente derivato dalla loro funzione. È evidente, infatti, che se si esprime l’amore mediante un fiore, è la corolla, piuttosto che gli organi utili a diventare il segno del desiderio»[33]. La presenza simbolica-reale del sangue, come elemento drammatico, che pone fine alla vita dell’usignolo e dà vita alla rosa, trova nelle parole di Bataille un senso al di là di ogni immaginario che sprigiona ogni racconto in sé.
Purtroppo il “sacrificio” dell’uccello verrà vanificato dall’opportunismo della ragazza che lascerà che ad accompagnarla al ballo sarà il figlio del ciambellano solo perché può permettersi «fibbie d’argento alle scarpe» non riconoscendo la preziosità del dono d’amore e dalla superficialità del giovane che riterrà più opportuno dedicarsi alla filosofia e alla metafisica poiché «quanto ad utilità» l’amore «non ne ha nemmeno la metà della Logica, perché non dimostra nulla, e ti dice sempre di cose che non accadono e ti fa credere cose che non sono vere»[34]. La rosa, simbolo misconosciuto dell’amore vero, verrà gettata sul ciglio della strada.
Tornano a Döblin, di che natura è il rapporto che intercorre tra il ranuncolo e il signor Michael Fischer? Nel racconto la logica del triangolo amoroso viene del tutto infranta. Innanzitutto a partire dalla definizione dei ruoli tra il signore vestito di nero e il fiore; infatti, se la descrizione dell’abbigliamento del signor Michael Fischer non lascia dubbi sul fatto che si tratti di un uomo, i tratti somatici ricordano quelli di un individuo in uno stadio di non avvenuta maturazione sessuale: il suo viso è «liscio e senza barba», quello di un «vecchio bambino». Questo tratto viene evidenziato più volte nel testo anche in riferimento al sensi di fastidio che il «grassone» prova nella mancanza di autocontrollo di più elementari movimenti: «intanto i suoi piedi continuavano a camminare […] voleva domarli presto questi cavallini»[35]. Persino il bastone con cui Michael Fischer sferza colpi nell’aria, che può essere considerato come metafora fallica, appare come simbolo isolato, esterno al corpo e quindi non direttamente riconducibile alla sessualità del protagonista.
Nella Ermordung einer Butterblume, la morte rappresenta l’incontro con la natura-donna-madre, che vuole inglobarlo, nonché la necessaria separazione dell’individuo da questa, onde costruire un proprio percorso in maniera autonoma e matura. Nello schema vine esemplificata appeno questa situazione; infatti, se i due assi si incrociano senza incontrarsi veramente, esiste tuttavia un trait-d’union.
L’assassino: colpevole o vittima?
Non potrei concludere questo mio contributo senza soffermarmi ancora una volta sul titolo del racconto e subito si fa largo una questione a mio parere ancora irrisolta: la colpa. Mi pongo dunque la seguente domanda: “in un racconto in cui viene ucciso un ranuncolo, un gesto che, riflettendo più attentamente, viene compiuto quotidianamente tutte le volte che si coglie un fiore, si può attribuire all’assassino una colpa? O l’assassinio va letto, come precedentemente per il ranuncolo, come metafora? Certamente ai tempi della Ermordung einer Butterblume, la trasposizione letteraria del tema dell’assassinio non era estraneo alla letteratura di lingua tedesca – in questo senso Döblin si muove in una rete intertestuale contemporanea – si ricordi, per citare un esempio, Kokoschka e il suo atto unico Assassinio, Speranza delle donne, apparso sulla rivista Sturm poco prima della pubblicazione della Ermordung (pubblicata anch’essa per la prima volta sulla rivista Sturm).
Nell’unico atto del dramma, la stilizzazione dei personaggi viene estremizzata al punto tale che non compaiono nomi propri, i protagonisti vengono designati unicamente come “l’uomo” e “la donna” come a volerne universalizzare le qualità peculiari. L’azione drammatica mostra, di notte davanti ad un castello, un giovane dal volto bianco e dalla fronte fasciata, e una donna dall’aspetto regale che si sfidano con lo sguardo, si riconoscono pur senza essersi mai visti e si lanciano oscure parole di minaccia. Egli fa imprimere un marchio di fuoco nella carne di lei; essa lo colpisce con un pugnale e lo fa rinchiudere nel castello ma poi non resiste al desiderio di liberarlo e cade esanime al suo primo tocco. Il dramma appare come rappresentazione straordinariamente vigorosa di due mondi, quello maschile e quello femminile che non riescono a incontrarsi se non combattendosi fino al soccombere di entrambi.
Sempre a proposito dell’assassinio, il romanzo Il colpevole non è l’assassino, ma la vittima, di Franz Werfel introduce una per noi ancora più interessante novità: il ribaltamento della consueta concezione di colpa e colpevole.
Nell’espressionismo, infatti, questo rapporto viene del tutto sovvertito; l’accesa polemica delle giovani generazioni verso tutto ciò che appare come ordine costituito: autorità, stato, famiglia, si tinge dei colori della lotta spietata, lotta che si incentra sul rovesciamento di tutti i valori, contro il mondo dei padri individuati come i garanti nella famiglia, nella scuola e nelle altre istituzioni pubbliche di quel sistema repressivo e impersonale a livello politico dell’imperatore nella delicata fase che condurrà alla prima guerra mondiale.
Seguendo il prezioso insegnamento di Nietzsche, gli espressionisti si fanno portavoce di quella Kulturkritik, esercitata dal filosofo tedesco accusando i borghesi (di cui erano colpevoli di essere figli) di vivere da «filistei della cultura», uomini dalla Doppelmoral, prediligendo, o identificandosi nelle loro opere, in atteggiamenti opposti alla cultura borghese.
Non è un caso che proprio in questo periodo la letteratura assista al fiorire di personaggi che «simboleggiano uno stile di vita completamente opposto a quello borghese e che per questo vivono ai margini della società: il mendicante, la prostituta, il pazzo, il criminale»[36], come conferma lo stesso Döblin quando afferma che le due uniche categorie di uomini che egli sente maggiormente vicine a sé sono «i bambini e i pazzi»[37]. In questo mondo ai margini della società «dell’anima bella»[38], la colpa non è sempre riconoscibile, visibile, riconducibile ad un fatto oggettivamente verificabile: «La colpa è la dimensione del singolo», scrive Canetti, e, verrebbe da aggiungere, come tale rimane spesso nascosta tra le pieghe del “normale”, del quotidiano[39]. Nel romanzo di Werfel, il motivo edipico della lotta del figlio contro il padre si carica di implicazioni psicologiche di una modernità estrema. Come il giovane Kafka che rivolgendosi al padre lo incolpa di slealtà come quando afferma «Con la tua insincerità avresti quindi raggiunto un triplice scopo, dimostrando anzitutto di essere innocente, in secondo luogo la mia colpevolezza, e terzo che con grande generosità saresti pronto non solo a perdonarmi, ma persino a qualcosa di più e dimeno, cioè a dimostrare e a voler credere che anch’io contro ogni evidenza, sarei innocente»[40], Karl, il protagonista di Il colpevole non è l’assassino ma la vittima, umiliato da anni di vita militare, condannato a seguire le orme paterne al servizio dell’imperatore, perseguitato da un padre autoritario, lontano da gesti di affetto e che pure non riesce a smettere di amare, consapevole che c’è un mondo in cui il genitore non può seguirlo, quello della musica, così prende posizione nei confronti della propria colpevolezza: «Non voglio dichiararmi innocente. Io, l’assassino e lui la vittima siamo entrambi colpevoli. Ma lui, lui un po’ di più»[41].
Ritornando all’Assassinio di un ranuncolo, a differenza di Kafka e Werfel, apparentemente all’azione commessa dal signor Fischer manca un movente, manca cioè quel nesso logico che giustifichi ai nostri occhi l’uccisione del fiore. Ma, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, il ranuncolo viene caricato di una valenza simbolica per cui anche il delitto deve necessariamente essere giudicato come simbolico. L’uccisione del ranuncolo Ellen va allora considerata come proiezione narcisistica del soggetto sul fiore, come specchio in cui il signor Fischer rappresenta la propria questione irrisolta; come esemplifica Fenichel, l’uccisione della vittima è da considerarsi una «terribile esperienza passiva perpetrata su altri anziché sul soggetto»[42]. È solo a partire dalla morte del ranuncolo che il signor Fischer, il commerciante, il borghese riscopre quei valori rimossi dalla propria coscienza. «Fu allora che, un mattino, mentre era alla finestra, quell’uomo indurito pianse per la prima volta dai tempi della sua infanzia»[43]. Il fiore stesso diventa proiezione della coscienza dell’uomo: «Come una severa coscienza, il fiore controllava le sue azioni, dalle più importanti alle più banali»[44]. Nell’immobilità, nel silenzio, silenzio in quanto essere vegetale e in quanto morto, il fiore si serve di mezzi diversi dalla parola per puntare l’indice contro il colpevole. La vita medesima diventa un costante atto di accusa, «ogni cosa bella del mondo era un suo atto di accusa»[45]. Comincia così a farsi largo, nell’animo del commerciante e in maniera sempre più pressante, il senso di colpa, che appare lampante in tutta la sua virulenza quando «il mattino successivo, mentre faceva i conti, qualcosa inaspettatamente lo costrinse ad accreditare dieci marchi al ranuncolo. Si spaventò, s’immerse in amare considerazioni sulla propria debolezza e incaricò l’amministratore di continuare al suo posto»[46]. Il sistema escogitato per ripagare il ranuncolo della propria morte sottostà ancora alle leggi dell’uomo d’affari che crede di poter acquistare qualsiasi cosa semplicemente comprandola con il denaro; ma egli si accorge ben presto che questa operazione ripetuta più volte non riuscirà a quietare la sua coscienza dal rimorso. Ora «s’era stancato, voleva starsene in pace»[47], il rimorso si fa sempre più presente e anche questa volta, come nel momento dell’incontro con il fiore, i sentimenti del signor Fischer si fanno carne, si proiettano sul corpo. Il delitto, il pensiero che Ellen, questo il nome attribuito al ranuncolo morto, sia stata derubata attraverso il suo gesto di tutte le bellezze e le gioie della vita, che «tutto le è negato»[48] fa sì che la tranquillità ostentata all’inizio del racconto venga del tutto spazzata via, il «suo volto di scimmietta» infatti «aveva assunto un’espressione sofferente; anche il suo corpo s’era fatto meno pieno, gli occhi erano infossati»[49]. L’assenza del ranuncolo si fa maggiormente presenza proprio in quanto ingigantito dal senso di colpa dell’uomo, dal suo tentativo di nascondere a se stesso, più che al mondo, di non elaborare l’accaduto. A nulla valgono i tentativi di redimersi dalla colpa perché, come insegna Freud, «talora più un soggetto si adopera per essere ligio alla coscienza morale […] più risulta gravato dal senso di colpa. La virulenza del super-io dimostra bene, in questo caso, come la buona volontà del soggetto non lo liberi affatto dal peso della colpa»[50]. Anzi, potremmo dire che la morte del ranuncolo si trasforma nell’immaginario del protagonista in una “nuova vita” in cui il fiore, ormai personificato, fa da padrone mentre egli, il signor Fischer, avvezzo, come abbiamo visto, a controllare, comandare e persino «schiaffeggiare» i propri dipendenti, fa da subalterno.
L’estremo tentativo da parte del signor Fischer di redimersi dalla propria misteriosa eppure tangibile colpa viene compiuto raccogliendo una nuova piantina di ranuncolo, ma il gesto non ha l’aspetto di una penitenza, anzi, secondo le parole del protagonista, in questo modo «il caro fiore avrebbe ricevuto una bella lezione». Il giovane ranuncolo, «la rivale» diventa simbolo della fuga del signore rispetto alla propria responsabilità. Rifugiandosi ancora una volta nella legge, «si ricordò di un paragrafo riguardante la compensazione del debito. Dissotterrò con il temperino una piantina lì vicino, la portò a casa tenendola delicatamente nella mano nuda e la piantò in un prezioso vaso di porcellana dorata […] sul fondo del vaso scrisse a carboncino: “Paragrafo 2403 comma 5”».[51]
La nuova pianta rappresenta la suprema vittoria del signore su tutta «la genia dei ranuncoli»[52], la liberazione dalla propria colpa, l’escamotage per mettere a tacere la piantina morta: «Questa era ormai obbligata per legge, eventualmente dietro provvedimenti polizieschi, a rassegnarsi; non ricevette più né scodella, né cibo, né denaro. Sovente, seduto sul divano, egli credeva di udire il suo piagnucolio, i suoi lunghi gemiti»[53]. Il riconoscersi in una norma, consente al signor Fischer di riacquistare la perduta giovialità, di ritrovare la serenità di un tempo, quando la sua “candida” coscienza non era macchiata dal peso dell’assassinio. La sua tranquillità si trasforma in gioia, in eccitazione quando la governante gli racconta di aver rovesciato durante le pulizie il vaso con il ranuncolo e di aver gettato via «quell’erbaccia ordinaria».
Questo nuovo avvenimento pone il protagonista in una sorta di euforia liberatoria; lungi dall’aver tratto una morale, un insegnamento dall’accaduto, di essere stato protagonista di una maturazione interiore – in ciò consiste la sua vera colpa – il signor Fischer legge questo evento come una prova della propria grandezza. Ora «poteva uccidere quanto voleva. Se ne infischiava dei ranuncoli tutti»[54]. Consapevole di non aver causato la morte di questo secondo fiore, esce di casa con la leggerezza nel cuore perché oramai «nessuno poteva rimproverargli nulla; non aveva desiderato neanche nel più profondo della sua mente la morte di questo fiore, non aveva dedicato nemmeno la punta del dito d’un pensiero a un tale desiderio»[55]. Il racconto mostra, nella sua conclusione, la totale involuzione del protagonista e si richiude come in un anello riportandoci alle prime pagine del racconto. Mentre la notizia di una morte dovrebbe quanto meno intristire chi ne viene a conoscenza, l’atteggiamento del signor Michael è quello della soddisfazione perché, come chiarisce ancora una volta Canetti, «il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinnanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell’atto di sopravvivere, l’uno è nemico dell’altro»[56].
Ancora una volta il signor Fischer è sopravvissuto alla lotta con il ranuncolo, ancora una volta lo si vede, lui, l’assassino, il colpevole, dirigersi verso S. Ottilien, il luogo del delitto, ma questa volta scompare, come una preda attirata nella tana, come una vittima attirata da chissà che, nel folto del bosco.
Note:
[1] A. Döblin, Von der Freiheit eines Dichtermenschen, in Schriften zu Ästhetik, Poetik und Literatur, Olten, Walter 1989, p. 128.
[2] Il termine venne coniato dall’autore in occasione di una critica sulle questioni programmatiche del futurismo, apparsa sulla rivista «Sturm» nel 1913, come risposta allo scritto di Marinetti, Supplemento al Manifesto tecnico del Futurismo. Il saggio, che porta il sottotitolo di Lettera aperta a Marinetti, si conclude con la famosa formula «pflegen Sie Ihren Futurismus. Ich pflege meinen Döblinismus» con il quale Döblin intende manifestare la sua spiccata avversione per ogni tentativo di rigida classificazione dello stile poetico, rivendicando la propria autonomia artistica, pur dichiarandosi tuttavia sensibile ad ogni forma di espressione, nei confronti della quale si poneva come filtro originalissimo. A. Döblin, Futuristische Worttechnik, in Schriften zu Ästhetik, Poetik und Literatur, cit., p. 119.
[3] Scrive Sonino: «Döblin, come molti grandi autori del Novecento, conduce quel Doppelleben, quella doppia vita che ha dato nel nostro secolo, ma non solo in esso, una grande letteratura soprattutto analitica», secondo quest’ottica essa va considerata «letteratura nel senso più alto del termine, una lettura che, non essendo frutto di un mestiere o di una professione, si è mossa ai margini […] non è stata cioè Leistung, prestazione, impegno a tempo pieno». C. Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa, Milano, Mondadori 1998, p. 114. Come ricorderà infatti lo stesso Döblin, il bisogno di realizzare un’opera lo portava a scrivere «dappertutto, come un fiume, sulla sopraelevata, in ambulatorio durante i turni di notte, tra due visite, sulle scale nelle visite a domicilio» in modo da non sottrarre tempo agli impegni di lavoro. A. Döblin, Futuristische Worttechnik, in Schriften zu Ästhetik, Poetik und Literatur, cit., p. 173.
[4] I racconti di Döblin furono scritti durante gli anni degli studi di medicina. Alcune di queste storie hanno come protagonisti personaggi del tutto slegati dal proprio ambiente naturale, indice dell’interesse clinico dell’autore per il patologico, per la follia considerata come mistero dalla psicologia tradizionale alla quale Döblin si avvicinò sempre con una certa diffidenza. Si veda al riguardo A. P. Dierich, The Endangered Self: Some Observation on Subjectivism and its Implication in Short Prose of Expressionism in «Germanic Review», 1983, n. 58 (4), pp. 141 – 146.
[5] A. Döblin, Der Nervenarzt Döblin über den Dichter Döblin, in Aufsätze zur Literatur, Olten u. Freiburg/Br., Walter 1963, p. 360.
[6] L. Renzi, Alfred Döblin ricerca della verità, Padova, Messaggero 2003, p. 49.
[7] A. Döblin Das Ich über die Natur, Berlin, Fischer 1927, p.7.
[8] A. Döblin, Unser Dasein, Olten, Walter 1964, p. 49.
[9] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, München, DTV, 1998, p. 7.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] P. Camporesi, Le officine dei sensi, Milano, Garzanti 1991, p. 35.
[14] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 7.
[15] Ivi, p. 65.
[16] Scrive Stoppa: «come spiega Lacan, il sogno, nel suo funzionamento normale, fa da cuscinetto fra il reale e la realtà ordinata del principio del piacere e dalla catena delle rappresentazioni. In tal modo permette, per quanto camuffata, una messa in scena delle pulsioni nei termini di quell’organizzazione dei significanti che Freud definisce processo primario. Il sogno […] attira il reale in uno spazio di finzione, è come se lo mettesse su un palcoscenico, ne prende le misure mentre lo assume e contemporaneamente ne cerca un senso possibile. E, anche nello stesso prodursi della scena onirica, la coscienza resta non del tutto aderente alla percezione visiva degli eventi rappresentati, al punto che Freud dice che il sognatore spesso sa bene che in fondo sta sognando». F. Stoppa, L’offerta ad dio oscuro, Milano, Franco Angeli 2002, p. 137.
[17] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 8.
[18] Ibidem.
[19] G. Bataille, Documents, Bari, Dedalo 1974, p. 47.
[20] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., pp. 59-60.
[21] Novalis, Heinrich von Ofterdingen, Milano, Mondadori 1995, p.9.
[22] Ivi, p. 10.
[23] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 15.
[24] Ivi, p. 8.
[25] Ibidem.
[26] Ivi, p. 10.
[27] «In una stanza tiepida come in una serra, /L’aria è perniciosa e fatale, /Dove i fiori morenti nelle loro bare di cristallo /Esalano il loro ultimo respiro/ Un cadavere decapitato spande, come un fiume /Sul guanciale intriso/ Un sangue rosso e vivo / che la tela beve con l’avidità di un prato./ Visione trasparente, simile alle visioni / che scorgendo dal buio ci incatenano gli occhi, / fulgida di gioielli, tenebrosa /e pesante la chioma, /sul tavolino da notte, come un ranuncolo, /riposa; deserto di pensieri, /e uno sguardo lontano e bianco come il crepuscolo /filtra dagli occhi rovesciati. /Sul letto, il tronco nudo senza scrupoli mostra/ Nel totale abbandono /Lo splendore segreto e la bellezza fatale /di cui gli fece dono la natura». C. Baudelaire, Una martire, in I fiori del male, in Opere, Milano, Mondadori 1996, p. 229.
[28] Soffermandoci ancora una volta sul titolo del racconto, viene spontaneo chiedersi il motivo per cui Döblin abbia scelto un ranuncolo e non un altro fiore come protagonista della storia. Lungi dall’essere una trovata da psicoanalisti, Butterblume è decisamente assonante con quella Mutter-(madre)blume, accanto alla quale egli si trovò a vivere dopo l’abbandono da parte del padre del nucleo familiare. Ricordiamo che Döblin definisce più volte il ranuncolo morto come «la madre» contrapponendolo al giovane ranuncolo che il protagonista maschile decidere di raccogliere e di accudire per espiare la propria colpa nei confronti della «vecchia»: «Se egli avesse estirpato una [piantina di] ranuncolo, figlia di quella morta, per trapiantarla a casa sua e allevarla con ogni cura, l’altra, la vecchia, avrebbe avuto una giovane rivale». A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 18.
[29] Si vedano al riguardo i saggi: C. Kanz, Emotionen und Geschlechterstereotype in Alfred Döblins Novelle Die Ermordung einer Butterblume, in «Internationales Alfred-Döblin-Koloquium: Bergamo 1999» a cura di T. Hahn, Bern, Lang 2002, pp. 31 – 54 e M. Reiner, Literatur und Zwangsneurose – Eine Gegenbertragungs-Improvisation zu Alfred Döblins früher Erzählung Die Ermordung einer Bubberblume in «Internationales Alfred-Döblin-Koloquium: Leiden 1995» a cura di G. Sander, Bern, Lang 1997, pp.49 – 60.
[30] «Tu sei come un fuore, / così incantevole e bella e pura; / Ti osservo e la malinconia /mi penetra nel cuore». H. Heine, Du bist wie eine Blume, in Buch der Lieder, Stuttgart, Reclam 1990, p. 142.
[31] «Disse il giovane: io ti colgo,/rosellina di brughiera!/Disse la Rosellina: io ti pungo, così penserai a me in eterno/non sopporterò che tu mi colga». J. W. Goethe, Gedichte 1756 – 1799, in Sämtliche Werke, Frankfurt a. M. Eibl 1987, vol. 2, p. 298.
[32] O. Wilde, L’Usignolo e la Rosa, in Opere, Milano, Mondadori 2000, p. 388.
[33] G. Bataille, Documents, cit., pp. 47-51.
[34] O. Wilde, L’Usignolo e la Rosa, cit., p. 389.
[35] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 11.
[36] A. Larcati, Espressionismo tedesco, Milano, Editrice Bibliografica 1999, p. 18.
[37] A. Döblin, Arzt und Dichter, in Aufsätze zur Literatur, Olten u. Freiburg/Br. 1963, p. 386.
[38] Scrive Lacan: «L’io dell’uomo moderno ha assunto la propria forma nella impasse dialettica dell’anima bella che non riconosce la ragione stessa del suo essere nel disordine che essa denuncia nel mondo». J. Lacan, Scritti, Torino, Einaudi 1974, vol. I, p. 275.
[39] Scrive ancora Larcati: «Dare il giusto peso alla protesta espressionista è difficile anche perché, se si vanno a guardare le biografie degli autori e si considerano aspetti non troppo evidenti delle loro opere, emergono lampanti contraddizioni e vengono alla luce ancor più sconcertanti punti di continuità con il sistema tanto criticato. Ben pochi autori, infatti, sono vissuti effettivamente ai margini della società tanto deprecata. La maggioranza di essi ha accettato come inevitabile la problematica della “doppia esistenza” (Benn), cioè la frattura tra ambizioni artistiche e necessità della vita borghese. Così, non sorprende che il curriculum vitae della gran parte degli espressionisti assomigli in modo sorprendente a quello degli odiati padri: scuola, università, famiglia, professione borghese». A. Larcati, Espressionismo tedesco, cit., p. 19.
[40] F. Kafka, Lettera al padre, Milano, Feltrinelli 1991, p. 69.
[41] F. Werfel, Il colpevole non è l’assassino ma la vittima, Milano, Tea 1996, p.141.
[42] O. Fenichel, Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, Roma, Astrolabio 1951, pp. 398 – 400.
[43] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 17.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
[46] Ivi, p. 16.
[47] Ibidem.
[48] Ivi, p. 7.
[49] Ivi, p. 16.
[50] F. Stoppa, L’offerta al dio oscuro, cit., p. 155.
[51] A. Döblin, Die Ermordung einer Butterblume und andere Erzählungen, cit., p. 19.
[52] Ivi, p. 20.
[53] Ivi, p. 19.
[54] Ivi, p. 20.
[55] Ivi, p. 19.
[56] E. Canetti, Il sopravvissuto, in Massa e potere, Milano, Bompiani 1988, p. 273.
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